martedì 30 agosto 2011

SE IL PROTOCOLLO CONTA PIÙ DELL'UOMO


STORIE DI ORDINARIA BUROCRAZIA

di Massimo Pandolfi
Tratto da Vite spericolate, il blog di Massimo Pandolfi, il 29 agosto 2011


Succede a Modena, è successo a Modena. Una donna di 77 anni viene investita sulle strisce pedonali, a 200 metri dal Policlinico, in pieno centro.

Arriva l’ambulanza, carica la donna, ma non la porta lì, a 200 metri, al pronto soccorso del Policlinico, un centro fra l’altro all’avanguardia (stile New York o Tel Aviv, mica Tripoli), presentato fra trombe e fanfare e costato una barca di soldi, 16 milioni di euro.

No, questa povera donna la portano a Baggiovara, l’altro ospedale modenese, lontano otto chilometri, dieci minuti di tragitto.

Domanda banale e terra-terra: ma non era più ragionevole condurla al Policlinico?

Risposta: no, lo vieta il ‘protocollo’. La storia ha avuto purtroppo un triste epilogo: la donna è morta e, parentesi, il caso finirà anche in Parlamento. Non ci piace speculare: molto probabilmente — anzi, a scanso di equivoci diciamo pure sicuramente — questa donna sarebbe morta comunque, anche se l’avessero portata al pronto soccorso più vicino.

Però ci domandiamo, vi domandiamo: ma che razza di protocollo è quello che strapazza l’uomo e la logica? Questa ‘legge’ in salsa modenese recita: le donne incinta e i bambini, in caso di trauma, devono essere portati al Policlinico, tutti gli altri a Baggiovara.

C’è un senso, teorico: al Policlinico sono esperti con i bambini, a Baggiovara con i traumi. La donna aveva 77 anni, non era gravida e quindi è tutto in regola, il protocollo è stato rispettato, non ha sbagliato nessuno.

Ecco, non ha sbagliato nessuno.

Certo. Però, azzardo, nessuno è riuscito a fare davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Perché fare il proprio dovere può voler anche dire avere la forza di stravolgerli questi benedetti protocolli se la realtà ti suggerisce ragiovevolmente altro, magari anche di prenderla in braccio questa povera donna e portarla di corsa lì dentro, al Policlinico, senza neanche bisogno dell’ambulanza.

Solo che se fai così o diventi un eroe (se la salvi) o vieni punito. E allora: molto meglio vivacchiare allineati e coperti, un po’ nascosti dietro i protocolli.

LA GIUSTA CASTA

I FURBETTI CON LA DOPPIA PENSIONE


I due ex segretari Cisl Franco Marini e Sergio D'Antoni incassano 14mila euro al mese come parlamentari. Ma si sono procurati altri due ricchi assegni mensili

di Mario Giordano
Tratto da Il Giornale del 29 agosto 2011

Cerco studente che sia andato a lezione da Sergio D'Antoni. Giuro: lo voglio trovare.
Qualcuno me lo segnali, mi faccia scrivere o telefonare: voglio avere la prova che l'ex sindacalista della Cisl ha avuto una grande carriera da professore, come la sua pensione lascia intendere.
Eh sì: perché da quando ho scoperto che D'Antoni riceve dall'Inpdap un assegno mensile di 5233 euro netti (netti!) al mese (103. 148 euro lordi l'anno) come ex docente universitario non mi do pace: voglio parlare con qualcuno che sia andato a lezione da lui.
Qualcuno che si sia abbeverato alle fonti di così costoso sapere. Se entro una settimana non lo trovo, sarò costretto a un gesto malsano: mi rivolgerò a «Chi l'ha visto?» e lancerò un appello in Tv.

Guardando ieri la prima pagina del Giornale sui sindacalisti che diventano ricchi organizzando gli scioperi ho fatto un salto sulla sedia: alcune persone citate, infatti, non solo ricevono il già abbondante stipendio parlamentare ma ad esso uniscono una pensione maturata grazie alla mitica legge Mosca, quella che ha consentito a 40mila persone fra sindacalisti e dirigenti di partito di vedersi riconoscere con un colpo di bacchetta magica contributi di fatto mai versati.

Privilegio su privilegio: lo vedete che a organizzare scioperi conviene davvero? I lavoratori no, loro ci perdono soldi e, in casi come questi, anche la faccia. I loro capi, invece, ci guadagnano. In carriera. In benefit assortiti. E, di conseguenza, in conto in banca.

Prendete Franco Marini, l'ex presidente del Senato, una vita da democristiano, sempre lì a pedalare fra un vino d'Abruzzo e una dichiarazione in Tv. Ebbene a voi, leggendo il Giornale di ieri, sarà sembrato esagerato il compenso mensile che si è assicurato difendendo gli operai: 14. 557 euro, che corrisponde per l'appunto all'indennità da senatore. Ma per la verità non è quello il solo denaro che riceve dalle casse pubbliche: infatti egli percepisce anche una pensione Inps di circa 2500 euro al mese, che gli piove in tasca dal 1991, cioè da quando aveva 57 anni. Merito della legge Mosca, che evidentemente se ne è sempre impipata dell'allungamento dell'età lavorativa chiesto ai cittadini comuni...

lunedì 29 agosto 2011

A PROPOSITO DI UNA FRASE DI DON GIUSSANI



Non l’agnosticismo, ma lo gnosticismo
è il pericolo per la fede cristiana

di Paolo Mattei
da "30giorni"

La frase di don Luigi Giussani a Giovanni Paolo II agli inizi degli anni Novanta: «No, Santità. Non l’agnosticismo, ma lo gnosticismo è il pericolo per la fede cristiana» ha destato interesse, anche al di là dell’ambito dei nostri lettori.
Il quotidiano Avvenire ne ha dato notizia in un piccolo articolo che riassume con precisione le parole e le intenzioni di don Giussani. Lo riportiamo integralmente: «Sull’ultimo numero di 30Giorni c’è una frase di don Luigi Giussani: “Non l’agnosticismo, ma lo gnosticismo è il pericolo per la fede cristiana”; così diceva a Giovanni Paolo II agli inizi degli anni Novanta. Scrive Lorenzo Cappelletti, introducendo la ripubblicazione di un articolo di Massimo Borghesi del 2003 (Il patto con il Serpente): “A distanza di ormai un ventennio ci si può rendere conto di quanto sia stata anticipatrice quella svolta di don Giussani. Svolta che può essere documentata anche nell’intervista, rilasciata nell’aprile del 1992, in cui don Giussani parla della persecuzione nei confronti di quelli “che si muovono nella semplicità della Tradizione”. Alla domanda dell’intervistatore: “Una persecuzione vera?”, don Giussani risponde: “È così. L’ira del mondo oggi non si alza dinanzi alla parola Chiesa, sta quieta anche dinanzi a uno che si definisca cattolico, o dinanzi alla figura del Papa dipinto come autorità morale. Anzi, c’è un ossequio formale, addirittura sincero. L’odio si scatena – a mala pena contenuto, ma presto tracimerà – dinanzi a cattolici che si pongono per tali, cattolici che si muovono nella semplicità della Tradizione”» (1).

Don Giussani, in quegli anni, non solo ha evidenziato il rapporto tra lo gnosticismo e la persecuzione nei confronti di coloro «che si muovono nella semplicità della Tradizione», ma ha chiarito anche la modalità attraverso cui lo gnosticismo diventa pericolo per la fede cristiana.
In uno stupendo intervento durante gli esercizi spirituali di universitari di Comunione e liberazione, il 12 dicembre 1998, così diceva: «La storia è fatta di alternanze drammatiche: i punti obiettanti sembrano dilatarsi più di quelli del passato. Il loro prevalere è statisticamente l’osservazione più amara e drammatica che un cristiano autentico possa fare proprio sulla situazione della Chiesa. Oggi il fatto che Cristo esista – chi sia, dove sia, quale strada per andare a Lui – non è vissuto che da pochissimi, quasi un resto d’Israele, e anche questi spesso infiltrati o bloccati dall’influsso della mentalità comune» (2).

Lo gnosticismo è il pericolo per la fede non, di per sé, in quanto cultura mondana. Questo non implica che il cristiano non possa giudicare la cultura del mondo, evidenziandone criticamente, potremmo dire laicamente, istanze positive, limiti ed errori (cfr. 1Ts 5, 21). Da questo punto di vista proprio la frase di Giussani: «Non l’agnosticismo, ma lo gnosticismo è il pericolo per la fede cristiana» potrebbe suggerire un’ipotesi di lettura della cultura mondana moderna, l’ipotesi cioè che la cultura del mondo moderno non sia caratterizzata, contrariamente alla definizione consueta che se ne dà, dalla laicizzazione radicale del cristianesimo, ma da una ricomprensione della novità cristiana dentro le categorie già note dello gnosticismo. Questa ipotesi ha avuto in Augusto Del Noce il suo sistematico estensore (3).

Ma a parte questa intelligente e interessante ipotesi di lettura del moderno, lo gnosticismo è il pericolo per la fede cristiana in quanto «spesso s’infiltra e blocca», per usare le parole così chiare di Giussani, il piccolo gregge, «quasi un resto d’Israele», che è la Chiesa.

Non Hegel, Goethe e Jung, per citare tre grandi maestri dello gnosticismo moderno, le cui immagini illustrano la copertina dell’ultimo numero di 30Giorni, sono di per sé un pericolo, ma chi nella Chiesa, in maniera più o meno occulta («occulto e orrendo veleno» è l’espressione che sant’Agostino usava per l’eresia pelagiana (4), «spesso s’infiltra e blocca», e quindi snatura, la semplicità della Tradizione.

Anche la tragedia della strage di Oslo del 22 luglio può indicare come lo snaturamento della fede dell’Antica e della Nuova Alleanza possa tracimare nell’odio più disumano e più diabolico. Infatti, se invece di affidare unicamente a Dio nella preghiera il rivelarsi del Suo mistero (e Apocalisse vuol dire rivelazione), l’uomo lo vuole costruire e anticipare da sé, rinnova la presunzione diabolica di essere come Dio (cfr. Ge n 3, 4-5).

Alcuni lettori hanno chiesto che fosse loro chiarito in maniera più semplice possibile cosa sia lo gnosticismo. A noi sembra che le brevi parole del discepolo prediletto, nella sua seconda Lettera, dicano con insuperata semplicità cosa si intende per gnosticismo ovvero per gnosi (anzi, meglio dire per falsa gnosi, perché anche la fede in Gesù Cristo è conoscenza, destata dall’attrattiva della Sua grazia). Scrive san Giovanni: «Chi va oltre e non rimane nella dottrina di Cristo, non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina, possiede il Padre e il Figlio» (2Gv 9).

Il pericolo dello gnosticismo per la fede cristiana si esprime nel tentativo di andare oltre la dottrina di Cristo, oltre la fede degli apostoli. Potremmo anche dire che lo gnostico non rimane nell’umanità di Gesù, quell’umanità che secondo l’apostolo Paolo racchiude in sovrabbondante pienezza «tutti i tesori della sapienza e della conoscenza» (Col 2, 3). Qui Paolo per indicare la “conoscenza” usa proprio il termine greco “gnosi”.
(…)


Note
1 Don Luigi Giussani: «Il pericolo oggi è lo gnosticismo», in Avvenire, 14 luglio 2011, p. 27.
2 L. Giussani, Cristo è parte presente del reale, in 30Giorni, n. 12, dicembre 1998, p. 49.
3 A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Bologna 1964, in particolare pp. 27 e 192.
4 Agostino, Contra Iulianum opus imperfectum II, 146: «Occultum et horrendum virus haeresis vestrae».

LEGGI ANCHE DON TANTARDINI
http://www.30giorni.it/articoli_supplemento_id_22114_l1.htm

I CATTOLICI "IMPEGNATI"


Se il vino nuovo che i laici cattolici
“impegnati”
versano nell’otre della nazione Italia è quello assaggiato in questi giorni, c’è poco da brindare.


Hanno un bell’invocare, il papa e il cardinale Bagnasco, una nuova stagione del cattolicesimo politico. Al momento di andare al pratico, ecco che cosa sfornano alcuni tra i loro più titolati esponenti.

Sul fronte nazionale il professor Giorgio Campanini, collaudato professionista di decenni di convegni cattolici, ha proposto sull’ultimo numero di “Famiglia Cristiana” la “autoriduzione, per un triennio, del ricavato dell’otto per mille che gli accordi del Concordato riconoscono alla Chiesa per la sua funzione sociale”.
E ha spiegato:
“Non si tratterebbe di tagliare le già modestissime retribuzioni di vescovi e di sacerdoti, bensì di ridurre altre voci di spesa, pur con il rammarico che ne risentirebbero gli investimenti per la salvaguardia di monumenti e opere d’arte di proprietà della Chiesa, e forse anche gli interventi in ambito caritativo”.

LA PLATEA PLAUDENTE DI RIMINI: UN CONTO E' DIALOGARE E UN CONTO E' METTERSI PRONI 

Sul fronte della politica estera, invece, il pasticcio l’hanno fatto quelli di Comunione e liberazione, al Meeting di Rimini.
Hanno invitato e sfrenatamente incensato il rettore dell’università cairota di al-Azhar, Osama al-Abd, “non il papa ma quasi” del mondo islamico sunnita, l’uomo che sta scrivendo assieme ai Fratelli Musulmani la piattaforma ideologica dell’assemblea costituente che darà forma all’Egitto del dopo Mubarak.
E con lui c’era un esponente di spicco dei Fratelli Musulmani, Abdel-Fattah Hassan, professore di italiano, il traduttore al quale i ciellini hanno affidato l’edizione egiziana de “Il rischio educativo” di don Luigi Giussani.
Un conto è dialogare, un altro mettersi proni. Alla platea plaudente di Rimini non è stata detta una sola parola di verità su al-Azhar e sui Fratelli Musulmani. Se l’Egitto, secondo una recentissima indagine comparata del Pew Forum, è uno dei peggiori stati al mondo per quanto riguarda i delitti contro la libertà religiosa e se oggi lo è più di ieri, lo si deve proprio a questi due diseducativi focolai d’inimicizia contro ebrei, cristiani e infedeli in generale.

A Rimini, CL ha fatto né più né meno quello che la Comunità di Sant’Egidio fa da anni nei suoi meeting interreligiosi, tanto pomposi quanto vuoti: come nel 2004 a Milano con il precedente rettore di al-Azhar, Ahmed al-Tayyeb, oggi divenuto imam della moschea, riverito e applaudito nonostante dichiarasse la sua approvazione degli atti terroristici contro i civili in Iraq e in Terra Santa. Al-Tayyeb è lo stesso che lo scorso gennaio ha attaccato pubblicamente Benedetto XVI per aver pregato per le vittime delle violenze al Cairo.

Andrea Riccardi, il fondatore di Sant’Egidio, è uno dei leader cattolici più in movimento, nell’agitazione che pervade tale mondo in vista del dopo Berlusconi. Stando a un suo articolo sul “Corriere della Sera” del 14 agosto, sembra ambire ad essere lui il “federatore” di una nuova futura presenza cattolica in politica. Più prosaicamente, il Montezemolo dei cattolici.

Ma a giudicare dalle performance citate, di nuovo in vista non c’è proprio nulla.

venerdì 26 agosto 2011

GRAHAM GREEN: UNO SCRITTORE CHE SI DA' IL CASO SIA CATTOLICO




UN BARLUME
DI SPIEGAZIONE



Non ha tutti i torti, Dario Fertilio, quando sbertuccia (sul Corriere della Sera) la moda di arruolare scrittori defunti oppure personaggi fantastici come Tex Willer, Harry Potter o Bart Simpson, tutti impossibilitati a replicare, nelle schiere dei credenti o addirittura dei cattolici, se non in pectore, beatamente inconsapevoli di esserlo.

Come antidoto a certe spericolate etichettature, si può ricorrerre alla lettura di un grande scrittore inglese che cattolico lo era davvero, convintamente (di famiglia anglicana, si era convertito ventiduenne alla chiesa di Roma) e sobriamente. Si tratta di Graham Greene, l’autore del “Terzo uomo” e del “Nostro agente all’Avana”, di cui Mondadori ha da poco pubblicato negli Oscar “Tutti i racconti” (812 pagine, 19 euro), alcuni dei quali per la prima volta tradotti in italiano. Della sua scelta, Greene diceva semplicemente: “Sono uno scrittore che si dà il caso sia cattolico”. Nella famosa intervista alla Paris Review, nel 1953, spiegò poi che, al contrario dei peccatori di Mauriac, che agiscono contro Dio, i suoi “per quanto provino, non ci riescono mai veramente”.

Ma è proprio in un racconto del 1948, contenuto nella raccolta Mondadori (“Un barlume di spiegazione”), che troviamo qualche elemento in più. I due personaggi – che per caso dividono lo scompartimento in “un lungo viaggio in treno in una tarda sera di dicembre”, con il riscaldamento rotto e la luce troppo fioca per leggere – mettono in scena il più classico contraddittorio sull’origine del male del mondo. Il narratore è un agnostico che si ribella “di fronte all’idea di un Dio che può abbandonare così le sue creature alle atrocità del libero arbitrio”. L’interlocutore, subito identificato come “cattolico romano”, lo ascolta quieto, senza “traccia dell’indifferenza o dell’arroganza intellettuale che mi sarei aspettato da un cattolico”.

Il primo vuole sapere se c’è una vera ragione per le sofferenze e per la “corruzione, anche dei bambini”. L’altro gli racconta una storia, senza pretendere di voler dare una risposta assoluta ma, appunto, “un barlume di spiegazione”.

Un bambino di dieci anni, David, serviva messa nella chiesetta di una piccolissima comunità cattolica dell’Anglia orientale. Sì e no cinquanta persone, oggetto di dileggio e ostilità da parte della maggioranza anglicana. Uno dei due fornai del paese, un “libero pensatore” – da lui i cattolici non compravano mai il pane – un giorno propone al piccolo David (che dell’uomo ha paura ma che accetta, in cambio di un giocattolo) un patto scellerato: vuole che il ragazzino rubi un’ostia consacrata e gliela porti…

Al termine del racconto (pura suspence alla Greene, vietato raccontare la fine) c’è, per chi voglia conoscerla, più di una ragione del suo cattolicesimo.

Graham Greene
Tutti i racconti
Mondadori - 812 pp. - 19 euro
di Nicoletta Tiliacos
Tratto da Il Foglio del 14 agosto 2011

HADJADJ: IL DRAMMA DELLA CERTEZZA


Fabrice Hadjadj ha parlato ieri al Meeting di Rimini sul tema «L’inevitabile certezza: riflessione sulla modernità».

La nostra fede, ed è un pensiero che Hadjadj condivide con don Luigi Giussani, «non può più essere ideologica, fondata su di una semplice eredità, o legata ad una sorta di arruolamento fideistico, senza implicare un lavoro personale di verifica». E come non si può essere cristiani fuori dalla storia, così non lo si può essere fuori dal dramma. «La nostra - dice Hadjadj a ilsussidiario.net - è una certezza drammatica. E come tale è apocalittica..»

La modernità ha prodotto il massimo dell’incertezza, o piuttosto ha dato all’uomo delle false certezze: da dove passa allora la strada per ricostruire la certezza?

È vero, la modernità ha proposto diverse false certezze. Si può affermare che ciò che ha segnato in modo negativo la modernità è una sorta di rottura, ma si tratta di una rottura che ha anche molti aspetti positivi. Essa ha trasformato in valori alcuni elementi essenziali del cristianesimo: penso per esempio alla libertà umana, alla giustizia sociale, alla dignità della persona, all’uomo che si assume interamente la responsabilità della propria vita.

Sono verità che appartengono realmente al patrimonio cristiano.

La modernità ha valorizzato questi fattori e per un istante ne siamo stati affascinati: pensiamo a quando prendiamo un fiore e lo mettiamo in vaso, e proprio per questo possiamo ammirarlo. La modernità è questo, e facendo questo ci ha permesso di prendere coscienza di queste dimensioni del cristianesimo. Ma il problema è che quando tagliamo il fiore per ammirarlo, ne decretiamo la morte. È quello che è accaduto con la modernità. I suoi punti di forza sono stati credere nel progresso e nella costruzione della società perfetta. In questo tragitto, la fede in Dio è divenuta fede nell’uomo.

E qual è l’esito finale dell’umanesimo moderno?

Questa modernità è collassata: le sue certezze, da umanistiche divenute atee, si sono distrutte. Questa modernità è implosa dall’interno, perché i progressismi sono divenuti totalitarismi, ed in più è stata contestata dall’«esterno»: dal darwinismo, che pensa che l’uomo sia frutto del caso, un «bricolage» dell’evoluzione, e dalla prospettiva della sparizione dell’umanità per mano dell’uomo stesso, come è avvenuto a Hiroshima. Allora è venuto il momento del post moderno: un post-umanesimo che non è meno pericoloso delle false certezze della modernità.

Per quale motivo?

L’attuale post-umanesimo presenta tre dimensioni: tre filosofie errate che sembrano antitetiche, ma che in realtà sono profondamente in relazione. L’ecologismo, per il quale l’uomo è il predatore della natura. Esso auspica il regresso dell’uomo fuori dalla storia, verso i cicli naturali; il tecnicismo, l’idea cioè che la tecno scienza può fabbricare un superuomo, un uomo nuovo competitivo e performante. Ma è chiaro che questo superuomo in realtà è un sotto-uomo, perché viene a dipendere dal mercato. Infine viene l’esito di una fuga in avanti dell’umanesimo, per cui si arriva ad una sorta di deismo fondamentalista.

In che modo questi post-umanismi ostacolano il riconoscimento della verità cristiana?

Producendo una frammentazione, di dislocazione interna alla verità cristiana, che è qualcosa di essenzialmente equilibrato, facendo coesistere perfettamente la verità e la ragione, la carne e lo spirito, la storia e l’eternità. In questo campo di rovine, dove tutte le speranze e le utopie progressiste moderne sono collassate, ci rendiamo ormai conto che se vogliamo ancora salvare l’uomo non possiamo più fare ricorso alla modernità, ma nemmeno possiamo rivolgerci alla postmodernità. Comprendiamo sempre di più che un vero umanesimo non può che fondarsi sull’idea che l’uomo, così come è dato, contiene un mistero, è stato desiderato da Dio, riscattato da Lui.

Lei guarda più a sant’Agostino, a san Tommaso d’Aquino o a Pascal?

Sono molto più vicino ad Agostino e a Tommaso che a Pascal. Ho sicuramente un debito immenso nei confronti di Tommaso d’Aquino in ragione della sua metafisica e della sua filosofia dell’essere, ma per lo stile sono piuttosto orientato verso Agostino, per il senso straordinario che egli ha dell’esistenza come un canto, per il «pensiero musicale» che ha della teologia e della vita umana.

E in che cosa è debitore di don Giussani?

Buona parte del mio pensiero era già formata quando ho incontrato Giussani, ma l’incontro che ho avuto con i suoi scritti è stato per me una grande conferma. In lui ho trovato un padre, un fratello, qualcuno con cui mi sono sentito in consonanza totale.

Quali sono le ragioni di questa stima così profonda?

In un’epoca di distruzione di certezze e di incertezza radicale sulla vita dell’uomo, don Giussani dice: guardate che il vostro cristianesimo, la vostra fede, non può più essere ideologica, non può più essere fondata su di una semplice eredità, o legata ad una sorta di arruolamento fideistico, senza implicare un lavoro personale di verifica. La certezza, è come se dicesse Giussani, deve essere radicata nel concreto dell’esistenza. Il titolo del Meeting di quest’anno esorta a ripartire proprio dall’esistenza, dal fatto dell’esistenza. È questa l’assise di ogni certezza.

Può la certezza diventare definitiva – o «immensa», come dice il titolo del meeting?

Ma che cosa vuol dire che una certezza è immensa? Non vuol dire certo una certezza a mia misura. Quindi non è una certezza che io possiedo, che domino, che costruisco, ma è piuttosto una certezza che mi prende, mi conquista, mi supera, e che in un qualche modo mi sfugge. È interessante l’idea di una certezza che mi sfugge... ma mi sfugge proprio perché è più grande di me! È questa la certezza che dissipa l’oscurità, non una certezza dalla quale possiamo trarre motivo d’orgoglio; è «immensa» una certezza che mi induce alla missione, e che mi spinge a prendere su di me il rischio di una esistenza pienamente vissuta, ricevuta e data.

Dove sbagliamo?

Nel fatto che spesso abbiamo della certezza un’immagine «minerale»: qualcosa di inerte e solido. Occorre invece ritrovare delle immagini viventi della certezza. La grande certezza è quella che viene a distruggere tutte le piccole certezze fatte a mia misura, per aprirmi a qualcosa che a sua volta mi butta nell’ignoto, ma anche mi dona un’ ebbrezza, un’esaltazione della vita, un’apertura all’incontro e alla comunione con ciò che mi supera.

Ieri è stato rappresentato in teatro l’adattamento di un suo testo (Job ou la turture par le amis). È una novità per lei? Che cosa le piace del teatro?

In realtà, la mia prima vocazione è stata la poesia. Ho iniziato facendo letteratura e poesia, la filosofia è venuta dopo. Ho sposato un’attrice, e chi mi ha portato nel teatro è stata innanzitutto mia moglie. Ho scritto il mio primo pezzo di teatro all’inizio del nostro matrimonio. l’amore per il teatro non è soltanto una concezione estetica, ma un dato che appartiene innanzitutto al mio vissuto. Il teatro è il luogo di una parola incarnata, di una parola che non e semplicemente concettuale ma che si fa vita. Ed è per questo che il teatro ai miei occhi ha in sé qualcosa di essenzialmente cristiano.

E tocca anch’esso il tema della certezza.

Sì, perché la certezza umana è una certezza drammatica. Come tale è apocalittica: sempre attraverso il dramma, attraverso la catastrofe, viene donata una rivelazione.



da: ilsussidiario.net


giovedì 25 agosto 2011

CAFARNAO: CON GLI OCCHI DEGLI APOSTOLI


di José Miguel García

Tratto da Il Sussidiario.net il 24 agosto 2011


La compagnia cristiana nasce dall’incontro casuale tra due giovani di Cafarnao e un uomo di Nazareth, tutti quanti mossi dall’attesa e dal desiderio di compimento delle promesse antiche.

Ascoltando e seguendo Giovanni Battista l’amicizia tra questi tre è diventata solida fino al punto di desiderare di rimanere insieme. E Gesù di Nazareth se ne è andato ad abitare con loro, nel loro paese. Così Cafarnao è diventa la città di Gesù. Gli abitanti di questo villaggio sono stati i primi a sentire l’annuncio del Regno di Dio e a vedere il suo inizio nei miracoli compiuti da quest’ospite, così eccezionale come inatteso.

La mostra “Con gli occhi degli apostoli” è centrata su questo paese dove è vissuto Gesù durante la sua vita pubblica. Certamente l’interesse per Cafarnao non nasce dalla bellezza naturale o artistica del posto, che certamente c’è, ma dal suo legame con questo uomo e la sua pretesa. Se Gesù di Nazareth si è posto nel mondo come risposta al mio dilemma umano, alla mia domanda di significato, mi interessa capire di più quello che lui ha fatto e detto, quello che è accaduto a Cafarnao e nel territorio della Galilea. Ci interessa conoscere cosa è successo con il suo arrivo, cosa hanno visto in lui i suoi abitanti, e soprattutto come mai alcuni di loro si sono affezionati così tanto a quest’uomo da andargli dietro fino a dare la vita per lui.

La mostra vuole manifestare il cammino di conoscenza e certezza fatto dai primi discepoli.
A questo scopo ci aiuterà immedesimarci nei racconti evangelici, che sono la testimonianza lasciata dai discepoli. Tutto quello che noi sappiamo su Gesù è giunto a noi grazie alla testimonianza degli uomini che Lo hanno seguito nel suo girovagare per le sinagoghe e i campi della Palestina. Come afferma Benedetto XVI nel suo libro Gesù di Nazareth il Gesù reale è il Gesù dei Vangeli, con la sua pretesa di divinità, con la sua eccezionale umanità, con la sua capacità di fare miracoli. La mostra si serve anche di tutto il lavoro archeologico fatto dei francescani dello Studium Biblicum Franciscanum e della ricerca storica. Così si fa più palese la ragionevolezza della fede cristiana.
Certamente il nostro Dio, incarnandosi in un uomo, si è fatto oggetto dei nostri sensi e della nostra ragione, dalla nostra ricerca.

Ma Gesù è una persona e non si può ridurre a un oggetto misurabile, a una cosa che si afferra e manipola. In realtà Gesù ha voluto soprattutto diventare soggetto di un rapporto, ha voluto farsi vicino e compagno di cammino. E il rapporto personale richiede un uso della ragione diverso da quello di chi si fa giudice supremo e ultimo di tutto. Nel rapporto umano serve la ragione assetata di verità, desiderosa di conoscere; serve la ragione destata dallo stupore e attratta dal bene e dalla bellezza.
Soltanto l’amore, che desidera conoscere sempre di più, apre gli occhi e porta la ragione alla vera conoscenza.

Il Dio incarnato, quindi, si svela sempre dentro un rapporto amoroso, cioè dentro il dialogo libero del tu umano e dell’io divino.
Però non basta mostrare i reperti archeologici o argomentare a livello storico ed esegetico perché l’uomo riconosca la verità di Gesù. Neanche mostrare la ragionevolezza e convenienza della fede, perché la libertà dell’uomo aderisca alla fede cristiana. Tanti abitanti di Cafarnao e dei suoi dintorni hanno udito la predicazione di Gesù, visto i suoi miracoli, sperimentato in qualche modo la sua umanità imparagonabile, e non lo hanno seguito o magari gli sono andati contro. Gesù non risparmia mai la libertà dell’uomo, anzi la mette in gioco. In altre parole, l’imponenza di Gesù era davanti a loro, l’Essere si manifestava e li provocava, ma l’adesione nasce dall’intimo della persona, dalla libertà che cede.

Gli apostoli hanno ceduto e la loro vita ha sperimentato il centuplo quaggiù. Mi auguro che la visita alla mostra favorisca questa mossa della nostra libertà, quest’adesione a Cristo. Così la nostra vita avrà una pienezza insospettata e con Lui potrà affrontare le prove della vita, certi della vittoria di Cristo risorto.

LEGGI QUI SOTTO L'INTERVENTO DI PADRE PIZZABALLA AL MEETING

http://www.terrasanctablog.org/2011/08/25/l%e2%80%99intervento-del-custode-di-terra-santa-al-meeting-di-rimini-3/

martedì 23 agosto 2011

MADRID : TRE CONSEGNE


Nell’omelia della messa di domenica 21 agosto, davanti a una immensa folla di giovani nella spianata “Cuatro Vientos” di Madrid , Benedetto XVI ha affidato ai presenti queste tre consegne:



LA FEDE: DONO E DECISIONE

“La fede non è frutto dello sforzo umano, della sua ragione, bensì è un dono di Dio: ‘Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne, né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli’. Ha la sua origine nell’iniziativa di Dio, che ci rivela la sua intimità e ci invita a partecipare della sua stessa vita divina. La fede non dà solo alcune informazioni sull’identità di Cristo, bensì suppone una relazione personale con lui, l’adesione di tutta la persona, con la propria intelligenza, volontà e sentimenti alla manifestazione che Dio fa di se stesso. Così, la domanda ‘Ma voi, chi dite che io sia?’, in fondo sta provocando i discepoli a prendere una decisione personale in relazione a lui. Fede e sequela di Cristo sono in stretto rapporto”.

NON DA SOLI MA CON LA CHIESA

“Sì, la Chiesa non è una semplice istituzione umana, come qualsiasi altra, ma è strettamente unita a Dio. Lo stesso Cristo si riferisce ad essa come alla «sua» Chiesa. Non è possibile separare Cristo dalla Chiesa, come non si può separare la testa dal corpo (cfr. 1 Cor 12, 12). La Chiesa non vive di se stessa, bensì del Signore. Egli è presente in mezzo ad essa, e le dà vita, alimento e forza. Cari giovani, permettetemi che, come successore di Pietro, vi inviti a rafforzare questa fede che ci è stata trasmessa dagli apostoli, a porre Cristo, il Figlio di Dio, al centro della vostra vita. Però permettetemi anche che vi ricordi che seguire Gesù nella fede è camminare con lui nella comunione della Chiesa. Non si può seguire Gesù da soli. Chi cede alla tentazione di andare per conto suo o di vivere la fede secondo la mentalità individualista, che predomina nella società, corre il rischio di non incontrare mai Gesù Cristo, o di finire seguendo un’immagine falsa di lui”.

IN MISSIONE IN TUTTA LA TERRA

Da questa amicizia con Gesù nascerà anche la spinta che conduce a dare testimonianza della fede negli ambienti più diversi, incluso dove vi è rifiuto o indifferenza. Non è possibile incontrare Cristo e non farlo conoscere agli altri. Quindi, non conservate Cristo per voi stessi! Comunicate agli altri la gioia della vostra fede. Il mondo ha bisogno della testimonianza della vostra fede, ha bisogno certamente di Dio. Penso che la vostra presenza qui, giovani venuti dai cinque continenti, sia una meravigliosa prova della fecondità del mandato di Cristo alla Chiesa: ‘Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura’ (Mc 16, 15). Anche a voi spetta lo straordinario compito di essere discepoli e missionari di Cristo in altre terre e paesi dove vi è una moltitudine di giovani che aspirano a cose più grandi e, scorgendo nei propri cuori la possibilità di valori più autentici, non si lasciano sedurre dalle false promesse di uno stile di vita senza Dio”.

Al termine della messa, il papa ha annunciato che la prossima Giornata Mondiale della Gioventù si terrà nel 2013 a Rio de Janeiro.

APPLAUSI SENZA RAGIONE

E' SUCCESSO DOMENICA A RIMINI

"La platea ha applaudito la morte per sete di Eluana Englaro, il suicidio per finestra di Mino Monicelli, il bagno di sangue in Libia, e ovviamente il divorzio e l'aborto, definiti dal destinatario dell'ovazione "libertà civili", non negli anni 70, ma due mesi fa" così ha scritto Langone oggi sul Foglio.

A chi giova applaudire un uomo così?

Altre volte la platea del meeting non ha sofferto di questo maledetto buonismo e ha parlato il linguaggio della verità.

domenica 21 agosto 2011

L'ESISTENZA DIVENTA UNA IMMENSA CERTEZZA


QUESTA E' LA VITTORIA CHE VINCE IL MONDO, LA NOSTRA FEDE

CLAUDIO CHIEFFO: UN AMICO GRANDE GRANDE


20 AGOSTO QUARTO ANNIVERSARIO DELLA MORTE

LA FILOSOFA (IM)MORALE


(L'arte dell'insulto richiede una profonda abilità mentale; e qui appare una totale negligenza verso i principi dell'abilità di insultare - nota di admin)


PER LA DE MONTICELLI ANGELO SCOLA E'
"VAGAMENTE MAFIOSO"
ARTICOLO DI VITTORIO SGARBI

La questione morale. Sono vent’anni che sento parlare di «questione morale».(...) Ma, nella disinvoltura di questi tempi, la «morale» torna a essere una «questione», e se ne riparla come nei primi anni Novanta. Così non poteva non incuriosirmi il libro di una studiosa stimata e, credo, anche cattolica, Roberta De Monticelli, sull’argomento, dichiarato, senza rielaborazioni, nel titolo (La questione morale, Raffaello Cortina editore).

La presentazione in quarta di copertina non lascia sorprese, e si allinea con il sentire dominante, motivato da inchieste giudiziarie e giornalistiche. Ma, nel contempo, non sembra indicare novità o situazioni mutate, dai tempi di Giolitti, per motivare nuove e originali riflessioni: «Corruzione a tutti i livelli della vita economica, civile e politica, la pratica endemica degli scambi di favori, lo sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati, la diffusa mafiosità dei comportamenti».

È vero che, sia pure con grande ritardo, la De Monticelli estende la sua denuncia anche al mondo universitario dominato irrimediabilmente dalla corruzione e dai privilegi di casta, soprattutto nell’arruolamento del personale docente attraverso concorsi-beffa che decidono i selezionati «sulla base di accordi tra gruppi di pressione o cordate - quando non addirittura di parentele - e non su quella del merito»; ma non manca di sorprendere - ed è conseguenza dello scriteriato proliferare di cattedre che caratterizza, rispetto alla tradizione accademica, proprio gli anni recenti - che il suo insegnamento all’università, ateneo privato Vita-Salute San Raffaele di Milano, sia non «filosofia teoretica» o «filosofia morale», ma una insensata e inventata, intrinsecamente tautologica, «filosofia della persona».

E a chi, se non alla persona, può essere indirizzata la filosofia? O, per estensione, dovremmo prevedere insegnamenti come «storia delle religioni della persona» o «biologia della persona» o «diritto costituzionale della persona» ed altre, personali, amenità? Ciò che è più grave è che la De Monticelli, pur proclamando, sulla scorta di Ronald Dworkin, «non solo che le persone abbiano diritti, ma che tra questi vi sia un diritto fondamentale, addirittura assiomatico..., il diritto all’eguale considerazione e rispetto», non rispetta affatto e anzi mostra di disprezzare profondamente, fino al punto, come suo caratteristico vezzo, di non citarne i nomi se non in nota, Angelo Scola, già Patriarca di Venezia e ora arcivescovo di Milano, e Renato Farina, deputato della Repubblica (per lei, credo, indegnamente).

Per loro non c’è né rispetto né considerazione, solo disprezzo, in evidente contrasto con la condanna, da parte della De Monticelli, della politica come «luogo del conflitto fra nemici, cioè della continuazione della guerra con altri mezzi»... in «una barbarica semplificazione, di sapore per di più mafioso: amico-nemico». Proprio quella che applica lei denunciando un intervento di Angelo Scola, sul direttore di Famiglia Cristiana Antonio Sciortino, come «vagamente mafioso».

E che vuol dire «vagamente» mafioso? Non contenta dell’insinuazione la De Monticelli denuncia «l’orgogliosa spregiudicatezza» del porporato «col piglio di un habitué al tavolo del negoziato eterno fra il diavolo e il buon Dio». Fino a concludere, con crescente disgusto: «E il brivido sfuma in un vago senso di nausea. Il cardinale è passato a tessere pubblicamente l’elogio di un oscuro personaggio, oscuro in tutti i sensi». Si tratta di Renato Farina, detto dalla De Monticelli «tal» e «un tizio noto alle polizie come “agente Betulla” radiato dall’Ordine dei giornalisti per tradimento della funzione giornalistica, dopo che l’aveva per anni - in veste di vicedirettore di un quotidiano, e in cambio di lauti vantaggi personali - prostituita al servizio di operazioni inconfessabili di polizia politica».

E dunque, in nome del proclamato «diritto all’eguale considerazione e rispetto», un cardinale viene considerato «vagamente mafioso» e un giornalista e deputato viene imprudentemente e sbrigativamente ritenuto indegno, senza avere la pazienza di attendere la sentenza della Cassazione (l’ammirata magistratura), che il trenta giugno di quest’anno ha annullato la radiazione dall’Ordine dei giornalisti al «tizio» che non è mai stato condannato nonostante la calunniosa insinuazione di aver prostituito la sua funzione per «lauti vantaggi personali» (mentre è stato acclarato che ha agito «disinteressatamente... ed esponendosi anche a gravi rischi»).

Non è un po’ troppo per chi insegna «filosofia della persona»? O non è una «questione morale» accusare di mafiosità e di prostituzione «persone» che si disistimano, con quella «coscienza sprezzante» e quella «cultura del sospetto» che si denunciano?

La De Monticelli riserva per sé quella «profondità del disprezzo» che denuncia per altri, con il paradosso di affermare (ma non per sé): «Il sapere che deprezza è un falso sapere». Questione morale: come è toccato ad alcuni innocenti e come lei oggi azzarda con Scola e Farina, se qualcuno l’accusasse di mafiosità (sia pur vaga) e di prostituire il suo pensiero (per esempio, agli idoli del nostro tempo, irrispettosi della persona e della verità), come reagirebbe?

di Vittorio Sgarbi
Tratto da Il Giornale del 15 agosto 2011

QUALE "AVVENIRE"?

GLI STILI DI VITA CHE SALVERANNO IL MONDO

(GESU' NON CE LA FA DA SOLO)
«... In questo contesto, spiritualità e religioni – motore decisionale nella visione morale delle persone – possono dare un grande segnale perfettamente coerente al messaggio evangelico, facendo da cassa di risonanza a un sistema di valori sostenibili: dalla cooperazione alla solidarietà, dalla sobrietà alla contemplazione delle bellezze naturali».

Religioni “cassa di risonanza” per “valori sostenibili”, ovvero un cristianesimo ridotto a fare da veicolo di un’etica globale ripulita di qualsiasi riferimento al trascendente. Dove possiamo leggere questi concetti? Sul quotidiano dei cattolici Avvenire, naturalmente, prima pagina dell’inserto culturale di “Agorà” di sabato 13 agosto.

La citazione è parte di un’intervista al climatologo Luca Mercalli, che pubblicizza il suo ultimo libro, l’ennesimo dedicato agli stili di vita che dovrebbero salvare il mondo (evidentemente il fatto che Gesù sia già venuto a salvare l’uomo non è considerato sufficiente). Il titolo dell’articolo di Avvenire è già tutto un programma: “Tutti più poveri ma ricchi di futuro”, che potrebbe essere anche scambiato per un commento a sostegno della manovra economica del governo.

Invece no, è soltanto la solita ideologia pauperista per cui, capovolgendo l’attuale consumismo, «potremmo allora pensare che “è figo” avere i pannelli solari, un’auto piccola, spegnere le luci quando si esce da una stanza, mentre è stupido non farlo».

Quando invece dovrebbe essere “figo” domandarsi prima il senso dell’utilizzo degli strumenti: l’auto piccola sarà uno “spreco” se si deve andare nel traffico all’edicola distante pochi metri e non diluvia, sarà rischiosa se si debbono effettuare lunghi viaggi. Analogamente per i pannelli solari e la luce. Comunque si tratta di uno stile di vita così “figo” che va “imposto” con un «protagonismo» da promuovere cambiando «i valori di fondo della società: un cammino breve se venisse instillato dalla pubblicità, promosso dalle religioni, normato dalle leggi, diffuso dall’informazione... Eterno, se deve emergere controcorrente».

Rileggiamo: «Instillato dalla pubblicità, promosso dalle religioni, normato dalle leggi, diffuso dall’informazione», una vera imposizione, un’etica di Stato di cui la religione deve essere cinghia di trasmissione, una concezione di cui curiosamente Avvenire si fa megafono senza sollevare la benché minima obiezione. Forse perché con lo stesso sistema ci è stata già instillata la corrispondenza tra “cosa buona e giusta” e l’aggettivo “sostenibile”.

sabato 20 agosto 2011

SUOR GLORIA RIVA DAVANTI A UN DIPINTO DI CHAGALL


L'Adorazione,
l'aspetto più sublime dell'amore

di Gloria Riva
16-08-2011



L'amore di Dio è anche eros e la pienezza dell’eros è l’agape, cioè il desiderio di esserci «esserci per » l'altro.

Sono parole di Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas est, ma potrebbero stare tranquillamente sulle labbra di un ragazzo dei nostri giorni. Sono parole che la GMG rendono ogni volta urgenti e attuali per il desiderio di amore che questo evento scatena nei giovani. Eppure a queste parole manca qualcosa. Sì, in certo qual modo Benedetto XVI ha dimenticato un aspetto, o meglio ha omesso di parlarne qui in questa enciclica perché è un aspetto ben presente nella vita e nel magistero del Papa: l'amore come adorazione.
In un altro suo testo infatti, quello sulla liturgia, papa Ratzinger, parla dell’adorazione come naturale compimento della comunione.

Esiste un affascinate dipinto di Chagall dove risulta evidente che la pienezza dell'amore sta nell'adorazione. Si tratta di un notturno dove il pittore, ritratto in primo piano con la tavolozza dei colori in mano, pensa a Bella, la sua amata che come fiamma azzurra nel cielo arde davanti al panorama di Parigi addormentata. Sullo sfondo, oltre alla luna, si staglia inequivocabile il profilo di Notre Dame. Il dipinto canta alla donna come ponte di comunione con Dio e all’adorazione come modo di comunione più intenso con l’altro, capace di condurre al mistero del Creatore. Adorare, del resto, trova la sua etimologia nel latino ad - os portare cioè la mano alla bocca e baciare.

L'aspetto più alto, più sublime dell'amore –anche dell'amore puramente umano - è l'adorazione cui l'altro, con il suo mistero di grazia e di bellezza, provoca.

Per questo i giovani hanno la capacità di comprendere e apprezzare l'esperienza dell'adorazione.
Forse per troppo tempo, anche a causa di un culto lautreutico talora esagerato, l'adorazione al Santissimo Sacramento è stata considerata una devozione. In realtà l'adorazione non è affatto una devozione, né può essere paragonata a preghiere pur importanti ed efficaci, come ad esempio la recita del Santo Rosario. L'adorazione è qualcosa di più. L'eucaristia, infatti, pur essendo il Sacramento cardine della Chiesa, finirà, la Messa punto focale dell'esperienza cristiana cesserà, poiché nell'eternità, secondo l'insegnamento delle Scritture, vedremo senza veli ciò che qui celebriamo nel Sacramento. L'adorazione, invece, non finirà, l'adorazione sarà la condizione eterna dei beati.

Nell'eternità noi vivremo adorando. Riportare i giovani al significato ultimo e profondo della propria esistenza coincide con l'avvicinarli al gesto umile e semplice dell'adorazione.
Ricordo una sera drammatica del martedì di Pasqua del 2009 quando la nostra chiesa si trovò gremita di giovani imploranti per la vita di una di loro. La notte del lunedì di Pasqua di quell'anno, infatti, cinque ragazzi avevano avuto un grave incidente stradale e una di loro, Elena, era finita all'ospedale in coma. Un folto gruppo di amici si raccolse attorno al Santissimo Sacramento, tutta la notte, per chiedere la grazia della guarigione. Davanti alla luce che scaturiva dall'eucaristia esposta - anche grazie alla testimonianza di una di noi - compresero che quella luce era la stessa che stava contemplando Elena nel silenzio del suo coma. Noi monache raccogliemmo molte lacrime e lo stupore di chi, per la prima volta forse, nella vita sperimentava un Incontro.

Ecco che cosa realizza l'adorazione: la grazia di un Incontro. Toglie la fede dal devozionismo e dal moralismo e la riconsegna all'esperienza grande di una relazione. I giovani possono capire questo meglio di chiunque altro, i giovani hanno bisogno di sapere che esiste questa straordinaria possibilità per la loro vita, è urgente che qualcuno la comunichi loro: amare è dire all’altro Tu puoi non morire, è consegnarlo alla grazia dell’adorazione eterna.

venerdì 12 agosto 2011

MONSIGNOR PIETRO SAMBI

Lorenzo Albacete

da "Il sussidiario"
mercoledì 3 agosto 2011




L’evento che più mi ha personalmente colpito la scorsa settimana è stata la morte dell’Arcivescovo Pietro Sambi, nunzio apostolico negli Stati Uniti. L’Arcivescovo Sambi era un mio amico e un lettore costante di questi articoli. Quando venne nominato nunzio negli Stati Uniti, un comune amico gli disse di contattarmi e, qualche settimana dopo il suo arrivo a Washington, mi chiamò e mi invitò ad andare a trovarlo.


Fu un incontro di circa un paio d’ore, discutendo dei bisogni della Chiesa negli Usa, di fede e cultura, del ruolo della scienza nel modo attuale di guardare ai bisogni dell’uomo, della funzione episcopale in tali situazioni, ecc. Rimasi profondamente impressionato non solo dalla vastità dei suoi interessi, ma soprattutto dalla sua fede e dall’umile devozione che ne derivava. Da quel giorno, o in visite simili o in incontri casuali, continuammo la nostra discussione su questi temi.

Qualche mese fa lo vidi in televisione mentre celebrava la Messa pasquale nella basilica del National Shrine of the Immaculate Conception a Washington, e mi accorsi che c’era qualcosa che lo stava immergendo ancor di più nel mistero della sua fede, e che la sua esperienza di questo livello di fede era guidata dalla liturgia. Non so se fosse a conoscenza della mortale malattia che lo ha portato alla morte, ma sono sicuro che il Signore lo stava preparando per questa estrema prova della sua fede.

Per quanto ho saputo da amici che erano con lui all’inizio dell’estate, sono sicuro che ha superato brillantemente il suo esame e che dall’eternità sta pregando per la Chiesa di questo Paese e, naturalmente, continua a leggere Il Sussidiario. Grazie per tutto, caro amico.

LE VANITA' MULTICULTURALI

Scruton “Ecco che succede a fingere
che le identità non esistano"


“Abbiamo creato una cultura delle gang violenta, sessista, omofobica e razzista; è una vergogna che cadrà sui multiculturalisti bianchi”.

E’ durissimo uno degli editor del Daily Telegraph, Damian Thompson, sui roghi e le rivolte di Oxford Circus, Edmonton, Tottenham ed Einfield. Comunità britanniche dove vige la common law, ma germina da anni anche la violenza sulle donne tipica di culture non occidentali, il delitto d’onore, la poligamia, la morte per apostasia e omosessualità.

Secondo Roger Scruton, massimo intellettuale conservatore del Regno Unito, docente di Filosofia a Boston e alla St. Andrews, la colpa è del “curriculum multiculturalista”.
“Lo sapevamo che sarebbe successo, l’integrazione è stata una ideologia semi religiosa, ma non ha funzionato”, dice Scruton al Foglio. “I multiculturalisti hanno sempre negato la connotazione identitaria, perché avrebbe frammentato il multiculturalismo. Coloro che hanno difeso la prima persona plurale della nazione sono stati attaccati in quanto ‘fascisti’, ‘razzisti’, ‘xenofobi’, ‘nostalgici’ o, nel migliore dei casi, ‘little englanders’. Lo avevamo già visto anche in Francia con il ‘mob rule’ delle banlieue.
Nelle nostre città i giovani crescono in ghetti isolati, in un ordine politico schizzato, vogliono affermarsi contro la società, mai per essa. In Italia non è ancora successo, ma potrebbe accadere se non avverrà una integrazione corretta. L’islamismo tende a infiammare questo scontro per costruire una retorica anti occidentale, ma in questo caso è stato soprattutto un fallimento interno alla nostra società.

Provo orrore e tristezza per come abbiamo distrutto il vecchio curriculum, dicevano che era monoculturale, che perpetuava l’idea della civiltà occidentale come superiore, che era patriarcale, il prodotto del maschio bianco europeo che aveva perso autorità. Ci avevano insegnato a vivere in un ambiente amorfo, nella città postmoderna aperta a tutte le culture. Ogni cultura avrebbe dovuto crescere nel proprio spazio, per godere dei frutti della cooperazione sociale e di un sistema educativo in cui la cultura maggioritaria avrebbe dovuto essere marginalizzata. Tutto quello che invece il multiculturalismo ha sancito è stata la distruzione della cultura pubblica condivisa e il diritto al rispetto, creando un grande vuoto. Il risultato è stato il relativismo”.

Scruton ne ha anche per i conservatori al governo. “La leadership di Cameron deve dimostrare di avere una cultura nazionale. Questo è il motivo per il quale Richelieu si era appellato ai francesi per far prendere in considerazione innanzitutto la loro fedeltà alla nazione, con lo scopo di superare il conflitto tra cattolici e protestanti. I conservatori inglesi da sempre sono considerati i guardiani della cultura nazionale, ma da anni sono stati anche loro intimiditi dalla correttezza politica. Michael Gove, il ministro dell’Educazione, sta cercando di fermare il multiculturalismo, ma a livello nazionale non c’è stata alcuna visione ideologica e intellettuale. Se Cameron ha davvero come modello Polly Toynbee (commentatrice liberal del Guardian, ndr), allora siamo persi. I politici sono sempre tragici quando cercano di essere ‘nice’”.

IL DRAMMA DI OSLO


TIMIDEZZA E DIGNITA'

Perché un uomo che da molti anni insegna letteratura norvegese in un Istituto Superiore di Oslo, per un motivo banale, un maledetto ombrello che non vuole saperne di aprirsi, perde il controllo e dà in escandescenze nel cortile della scuola, sotto lo sguardo attonito dei ragazzi che assistono in silenzio alla fine della sua lunga carriera di docente?

Forse la noia e l’ostilità degli alunni che assistono alle sue lezioni su Ibsen senza alcuna scintilla di partecipazione? Eppure Elias Rukla aveva voluto fare l’insegnante: “Se c’era qualcuno che aveva dimostrato la propria fedeltà verso questa società, era lui. Aveva dedicato sette anni della sua vita agli studi per prepararsi ad essere un pubblico educatore della gioventù norvegese. Dopo di che, per quasi venticinque anni, aveva avuto come missione quotidiana quella di tramandare alla nuova generazione l’autocoscienza della nazione e il suo fondamento. Tutto questo l’aveva fatto del tutto spontaneamente, a occhi aperti, anzi, l’aveva proprio deciso scegliendo liberamente tra molte altre possibilità a sua disposizione…”

Lui non aveva tradito, come l’amico di studi e di bagordi Johan Corneliussen, promettente studioso di Kant, marxista convinto che poi, di punto in bianco, se n’era andato negli Stati Uniti a lavorare come pubblicitario, abbandonando la moglie, la bellissima Eva, e la figlia Camilla di sei anni. Per la verità questa inaspettata decisione dell’amico aveva permesso che l’impossibile diventasse realtà: la bellissima dea era venuta a vivere da lui con la figlia, era addirittura diventata sua moglie e lui l’aveva adorata, amata, contemplata, anche se lei non gli aveva detto mai, neanche una volta, “Ti amo”, neppure nell’intimità della “camera da letto appositamente arredata dove dormo con lei”. Dormire, questo amava la bella Eva Linde che ”non desiderava mai andare verso un nuovo giorno, non si voleva svegliare e si aggrappava in modo così testardo al suo sonno, era evidente”.

Poi anche lei si era appesantita, con gli anni; aveva abbandonato il lavoro e s’era rimessa a studiare per diventare assistente sociale; e lui, di notte, solo, mentre al moglie dormiva, beveva birra e acquavite, rimuginando intorno al proprio fallimento di “essere sociale”.

La cosa peggiore era che gli sembrava di non avere più niente da dire. Se non a se stesso. Un’epoca era tramontata, e lui era lì a parlare con se stesso. Un’epoca era tramontata e, con lei, Elias Rukla in quanto essere sociale, perché era proprio a quell’epoca che lui si era messo a disposizione, quale pubblico educatore. Aveva poca voglia di diventare educatore di un’epoca nuova, e per altro neanche aveva le qualifiche per farlo, per dirla in modo blando. È semplicemente così, sbottò. È questo, cazzo, che si prospetta. Decadenza da ogni parte. Basta che ti guardi intorno, gridò. Non riesci cazzo più neanche a parlare. Quand’è l’ultima volta che hai fatto una conversazione? Dev’essere stato anni fa, pensò assorto. Se vuoi trovare qualcosa che per te abbia un senso devi andare a rovistare in mezzo a un pantano di interessi economici, aggiunse. Si può ammutolire per meno. Ma loro chiamano questo pantano democrazia. Anzi, se io lo chiamo pantano vengono a dirmi che disprezzo il popolo, pensò indignato. E forse hanno ragione, pensò assorto. Forse non credo più alla democrazia. (…) Mi rifiuto di considerarmi un antidemocratico, pensava testardamente. Non mi rassegno. Perciò devo ammettere, non senza repulsione, tutto considerato, che se vuoi presentarti come sostenitore della democrazia, devi esserlo anche quando sei in minoranza ed essere convinto, intellettualmente e soprattutto nel tuo intimo, che la maggioranza, nel nome della democrazia, possa abbattere tutto ciò che tu rappresenti e che significa qualcosa per te, di più, che ti dà la forza di vivere e resistere, anzi, che dà una specie di significato alla tua vita, qualcosa che trascende il tuo destino piuttosto casuale, si può dire.

Quando gli araldi della democrazia urlano e sbraitano trionfanti le loro volgari vittorie, giorno dopo giorno, in modo da far soffrire sul serio, come soffro io, si deve comunque accettarlo, perché non voglio che mi si appiccichino altre etichette, pensava. Poi restava immobile, sprofondato nei pensieri, lo sguardo fisso davanti a sé per un lungo momento. È orribile però, aggiungeva, alzandosi di scatto per andare a letto. E poi non ho più nessuno con cui parlare, sospirava. Eva naturalmente, ma non era quello che avevo in mente.

Ecco l’origine del “disdegnoso gusto” di Elias, la cui vita pienamente circoscritta entro i dettami del dovere sociale e della democrazia finisce per disintegrarsi una mattina, nel tempio della pubblica educazione, insieme alle stecche di un ombrello disobbediente.

Scritto a metà degli anni Novanta, "Timidezza e dignità", questo è il titolo del romanzo di Dag Solstad, è stato pubblicato quest’anno da Iperborea.
Una coincidenza?

di Mauro Grimoldi
Tratto da Il Sussidiario.net l'8 agosto 2011

SOTTO IL CIELO DEL FADO

 
GLI ODORI DI LISBONA

 
Cala la sera sul Tago, e la città si riempie di chitarre. Tanti musicisti, 'professori' e dilettanti, percorrono le strade su e giù per le colline e si recano nei locali. Chi per lavoro, chi solo per gioia. Ma sarà una gioia condivisa, perché di fronte al pubblico la cosa importante è dare emozioni. Le strade pullulano di gente.

Non è difficile trovare crocchi fuori dai locali, dove le insegne brillano e invitano a entrare per ascoltare il fado migliore che ci sia. Alle nostre orecchie, il fado migliore è quello che si suona col cuore. E’ quello che questi musicisti riescono a evocare con le loro 'unghie', protesi che permettono di pizzicare le corde e sono indossate come un rito in una musica fatta di riti, di rimandi a una tradizione che rimarrà inalterata nel tempo e che comunque sarà sempre alla base di qualsiasi nuova avventura legata a Lisbona, al fado, a una serata dai sapori profondi, piccanti, esagerati.


Nelle stradine del Bairro, o sui saliscendi dell’Alfama, fuori da questi locali, un altro dei riti è quello della sigaretta. Gruppi di orchestrali di 'case' vicine che fumano e si raccontano, che giudicano le voci nuove che arrivano e che ricordano i compagni di tante avventure, quelli che da quarant’anni ogni sera li accompagnano in un percorso sempre uguale, sempre diverso. Sono gruppi di persone dove è il nero il colore prediletto della giacca, la camicia bianca col collo largo aperto è spesso bagnata dai rivoli di sudore che scendono e dimostrano l’impegno, la concentrazione, il caldo di ambienti che è giusto rimangano quello che sono stati in una storia che si rinnova beandosi e riflettendo su se stessa.

La musica ha il sapore forte del pasto, coriandolo e cannella, aglio e cipolla, fanno del baccalà, del riso coi frutti di mare, della carne di maiale con le vongole, succulenti contorni alla musica e i loro afrori giungono anche fuori, ora che stiamo passando per Diario da Noticias o Sao Pedro curiosi e complici di quei gruppi che chiacchierano di cose belle e nei quali qualcuno si gira, ci riconosce, e ci saluta.

Quando decideremo di entrare in un locale, lo sarà per convinzione, anche se stasera, forse, ci accontenteremo di ascoltare la musica dalla strada per respirare ancora di più l’aria di Lisbona.

Tratto da Radio Pereira

mercoledì 3 agosto 2011

I NUOVI PERSEGUITATI



EMILIA ROMAGNA
ROSSA
SAZIA
DISPERATA

L'ideologica antidemocratica  di una sinistrra che non dà diritto di cittadinanza ai cattolici.



NON C’E’ la firma di Carlo Caffarra, cardinale di Bologna e capo dei vescovi dell’Emilia Romagna, ma sull’articolo apparso ieri sull’inserto domenicale Bologna Sette di Avvenire, e firmato da Paolo Cavana, professore di diritto di famiglia ed ecclesiastico, è come se ci fosse il suo timbro notarile.

La Chiesa attacca a muso duro la Regione Emilia Romagna. E non è la prima volta. Neanche due anni fa (dicembre 2009) scese direttamente in campo Caffarra, con una lettera inviata a tutti i consiglieri regionali dell’Emilia Romagna, per stigmatizzare i cosidetti ’Dico all’emiliana’ , la legge promulgata dalla giunta Errani.

Stavolta nel mirino della Curia c’è la polemica, ampiamente riportata nei giorni scorsi dal Carlino, relativo alla mancata elezione, come da precedenti accordi, di Silvia Noè (Udc) alla presidenza della Commissione Pari opportunità. «In regione parità ma non per i cattolici» è il titolo del commento che appare nel supplemento di Avvenire, in sostanza l’organo ufficiale della Chiesa bolognese ed emiliana.
Scrive Cavana: «La candidata è stata bocciata dalla maggioranza per il solo fatto di essere cattolica... Si è trattato di un fatto molto grave e senza precedenti, almeno nella nostra Regione. Non l’appartenenza politica, ma l’essere cattolici, è stato fatto oggetto di un atto di esplicita discriminazione, motivata pubblicamente come tale, ciò che in nessun altro ambito della vita sociale sarebbe oggi ammesso».

LA CANDIDATURA di Silvia Noè, in realtà, fu portata avanti dallo stesso governatore Vasco Errani, che un anno fa impose il nobile principio di dare la presidenza delle commissioni ai rappresentanti delle varie forze politiche, anche fuori dalla maggioranza. Mancava l’Udc e allora si propose la Noè, cattolica dichiarata.
Di fronte a questo nome, però, l’Idv, la sinistra estrema e alcuni movimenti omosessuali, hanno imposto il loro veto e alla fine la stessa maggioranza di governo regionale ha fatto dietrofrount, scaricando la Noè e proponendo Roberta Mori, poi eletta. Fin qui la cronaca, con le successive polemiche, l’esultanza dei ‘nemici’ della cattolica Noè e lo sfogo, umano e amaro, al Carlino della stessa consigliera dell’Udc: «Mi sento discriminata. Le testimonianze più belle di solidarietà le ho ricevute da diversi amici omosessuali: ‘Silvia, ti hanno trattato così perchè non ti conoscono’. Mi sarebbe piaciuto farmi conoscere».

L’IRA della Chiesa contro la Regione arriva anche ad una conclusione: «Aver negato all’opposizione anche tale presidenza — scrive Cavana — significa di fatto voler soffocare in Regione ogni voce di dissenso su questi temi, con una palese violazione delle più elementari garanzie di pluralismo».Dalla Regione nessun commento ufficiale, anche per evitare di rendere ancora più tesi rapporti già da tempo difficili. Oltre ai diritti riconosciuti alle coppie non sposate, la Chiesa da tempo rimprovera alla giunta di via Aldo Moro anche altre pecche, come ad esempio l’uso spregiudicato — e «anche fuori legge rispetto alla normativa imposta dallo Stato» sottolineano in parecchi — della RU486.

IL COMMENTO DI MASSIMO PANDOLFI:
I NUOVI PERSEGUITATI

NEL 2010 Franco Grillini, oggi consigliere regionale dell’Idv, fu eletto all’unanimità presidente della commissione attività produttive. Trent’anni fa lo stesso Grillini, uno dei paladini bolognesi e nazionali delle sacrosante battaglie contro le discriminazioni dei gay, non sarebbe mai stato eletto alla presidenza di una commissione. Perchè gay, perchè discriminato in partenza, appunto.
Un anno fa nessuno per fortuna (e sottolineate bene il ‘per fortuna’) ebbe qualcosa da dire: eleggere Grillini è doverosamente diventato normale, ormai certi marchi infamanti sono stati superati.
Oggi non è pero normale eleggere una persona che si dichiara cattolica — e cioè crede in Dio, in Cristo, nella Chiesa, nel Papa — perchè una certa mentalità culturale dominante, soprattutto in Emilia Romagna, dà per scontato ciò che scontato non è affatto: e cioè che su certi argomenti, i cattolici siano persone di serie B.

Possibilmente senza diritto di parola, figuriamoci di poltrona. E allora Caffarra e la Chiesa di Bologna hanno un po’ ragione nel commentare in maniera diretta e decisa ciò che è successo a Silvia Noè. Perchè la verità è che in quella commissione poteva andarci un comunista o un democristiano, un berlusconiano o un vendoliano, un massone o un musulmano; chiunque poteva andarci, nessuno avrebbe detto nulla. Ma un cattolico no, un cattolico proprio no. Perchè un cattolico su certi temi ha torto a prescindere. Questa roba qui, signori, si chiama discriminazione.E ci piacerebbe se gente che ha passato la vita a combattere le discriminazioni, anche sulla propria pelle, avesse un sussulto e capisse che non va bene mettersi oggi a discriminare gli altri. Ci ritorna in mente un nome: Franco Grillini.

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MEMENTO MORI

All’ingresso degli ospedali si applichi una grande scritta: “Ricordati che devi morire”. Perché tutti sembrano averlo dimenticato. Al San Filippo Neri di Roma ancora una volta hanno picchiato un medico, colpevole secondo i parenti di non aver salvato una paziente. L’Ordine dei camici bianchi ha reagito con una dichiarazione cieca: “Il terreno di coltura nel quale si perpetuano aggressioni verbali e fisiche trova concime nel progressivo depauperamento del servizio sanitario pubblico”. Come se fosse una questione di soldi. Le cose stanno molto diversamente: pazienti e parenti hanno cominciato a pretendere l’immortalità del corpo da quando hanno smesso di credere nell’immortalità dell’anima. E quindi gli ospedali piuttosto che di nuove attrezzature hanno bisogno di antiche verità, in particolare della seguente: “Si deve morire”.

© - FOGLIO QUOTIDIANO

di Camillo Langone

MULTICULTURALITA' E MULTICULTURALISMO


DI MAGDI' CRISTIANO ALLAM

Sembra proprio che in Italia siamo prossimi all’introduzione del reato di offesa al multiculturalismo.

Prima che qualche magistrato ideologicamente orientato (purtroppo in Italia non mancano) arrivi a condannare me o altri intellettuali per apologia di razzismo o addirittura di terrorismo, facendo leva su un reato che si accrediterebbe per la prima volta, di offesa al multiculturalismo o all’islam, ritengo sia opportuno chiarire la differenza sostanziale tra la dimensione dell’ideologia o della religione da quella delle persone, nel caso specifico tra multiculturalimo e multiculturalità, nonché tra islam e musulmani.
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A questo punto dobbiamo chiarire la distinzione fondamentale tra il multiculturalismo e la multiculturalità.

La multiculturalità è la fotografia della realtà inoppugnabile che ci fa toccare con mano il fatto che ormai in qualsiasi angolo della Terra convivono persone provenienti da Paesi diversi, con fedi, culture e lingue diverse. Personalmente considero di per sé la multiculturalità come una realtà positiva, una risorsa che può tradursi in arricchimento e crescita per l’insieme della società e, su scala più ampia, per l’insieme dell’umanità. La multiculturalità è l’estensione, nel nostro mondo globalizzato, della realtà dell’emigrazione che è connaturata alla vita stessa, avendo da sempre l’uomo ricercato altrove migliori condizioni di sussistenza.

Il multiculturalismo invece è tutt’altro dalla multiculturalità. Mentre la multiculturalità è un dato che concerne gli "altri", il multiculturalismo è un dato che concerne il "noi".

Il multiculturalismo è un’ideologia che immagina di poter governare la pluralità etnica, confessionale, culturale, giuridica e linguistica senza un comune collante valoriale e identitario, limitandosi sostanzialmente a elargire a piene mani diritti e libertà a tutti indistintamente senza richiedere in cambio l’ottemperanza dei doveri e il rispetto delle regole.
Il multiculturalismo laddove viene praticato, principalmente in Gran Bretagna, Olanda, Svezia, Norvegia, Danimarca, Belgio, Germania, ha finito per disgregare anche fisicamente la società al suo interno con la presenza di quartieri-ghetto abitati quasi esclusivamente dagli immigrati, ha accreditato l’immagine di nazioni alla stregua di "terre di nessuno" alimentando l’appetito di chi ci guarda come se fossimo "terre di conquista".
Ora spero proprio che sia chiaro il mio pensiero: se io, legittimamente, confortato anche dalla posizione espressa da capi di Stato e di governo europei in carica, denuncio il multiculturalismo, ciò non significa in alcun modo né che io sia contrario alla multiculturalità intesa come convivenza con persone di etnie, fedi, culture e lingue diverse e, meno che mai, che io nutra un pregiudizio razziale o religioso nei confronti delle persone.
Come potrei mai proprio io, che sono di origine egiziana e che sono stato musulmano per 56 anni, avere sentimenti ostili nei confronti dei miei ex-connazionali e dei miei ex-correligionari?
Tuttavia, al pari di Gesù e di Gandhi, che dissero di amare il peccatore, ma di odiare il peccato, io rivendico il diritto di poter affermare pubblicamente e legittimamente sia il mio amore per gli immigrati e per i musulmani come persone sia la mia condanna del multiculturalismo come ideologia e dell’islam come religione. È ancora lecito in Italia e in Europa affermare la verità in libertà? Possiamo ancora attenerci all’esortazione evangelica: "Sia il vostro parlare sì sì, no no"?