martedì 29 maggio 2012

PARTIRE DALLA REALTA'


La centralità della persona

IL BUON GOVERNO
La crescita non si produce per decreto, ma allargando l’autonomia e le capacità creative dei cittadini

Quasi mai, in politica, due più due fa quattro. Più spesso, fa tre o cinque. Tradotta in termini storici, l’anomalia logico- matematica è ciò che, da Machiavelli a Croce, chiamiamo «autonomia della politica dalla morale »; ovvero, la prevalenza del principio di realtà sul moralismo, delle «dure repliche della storia» sul dover essere.

Nel corso della storia europea, essa si è concretata, nel Cinquecento, con la fine delle guerre di religione, nel concetto di «sovranità»; poi, filosoficamente, nel «secolo dei lumi» (il Settecento) nella superiorità dell’Illuminismo scozzese, empirico e scettico, su quello, razionalista ed etico, francese; infine, nell’Ottocento, politicamente nel liberalismo e, istituzionalmente nel costituzionalismo. L’«incorruttibile» Robespierre, vittima del suo stesso integralismo giacobino, è morto su quella ghigliottina che aveva edificato per tagliare la testa ai corrotti dell’Antico regime, mentre gli scettici David Hume, Adam Smith e i loro sodali di Edimburgo e dintorni sono morti nel loro letto dopo aver attraversato le lotte di religione e le rivoluzioni inglesi e averne influenzato felicemente gli esiti.

Che piaccia o no, da noi, l’evasione fiscale e il lavoro nero sono stati, a lungo, il modo col quale la politica ha fatto quadrare i conti del Paese, mostrando che due più due può anche fare tre o cinque, e imponendo il principio di realtà—attraverso la propria autonomia dalla morale — sul dover essere. La spesa pubblica — a sua volta produttrice di corruzione — ha fatto il resto, contribuendo alla stabilizzazione e, entro certi limiti, persino alla migliore funzionalità di un sistema altrimenti condannato alla paralisi dall’infelice sovrapposizione del modello totalitario, politico e istituzionale collettivista mutuato dalle democrazie popolari d’oltre cortina, alla precedente legislazione autoritaria ereditata dal fascismo.

È stato il capolavoro della Democrazia cristiana, di cattolici che, per dirla con Montanelli, quando andavano in Chiesa, parlavano più volentieri col parroco in sacrestia che al Padre Eterno davanti all’altare, e avevano (opportunamente) rovesciato il detto popolare «fa come il prete dice, non come il prete fa» nella versione «fa come il prete fa, non come il prete dice» sulla quale fondare il boom economico e sulla quale — l’affermazione non appaia blasfema; riflette la realtà storica—si è retta, nel corso dei secoli, quella straordinaria istituzione terrena e politica, prima che trascendente e religiosa, che è stata (ed è tuttora) la Chiesa di Roma. Il mondo, per dirla con Machiavelli, non lo si governa con i pater noster. Non suoni neppure come una sorta di elogio dell’evasione fiscale e della corruzione l’affermazione che questo nostro Paese sia cresciuto e si sia sviluppato (anche) attraverso l’illegalità e l’eccessiva dilatazione della spesa pubblica. Essa è confermata, del resto, dalla prova contraria, solo apparentemente paradossale. Siamo finiti nei guai, con la crisi del debito sovrano, non per l’evasione fiscale, la corruzione, bensì perché la spesa pubblica si è dilatata per sovvenzionare un modello di welfare «ormai morto» (copyright Mario Draghi), ubbidendo a un’istanza morale, la giustizia sociale.

La constatazione fa, altresì, tutta la differenza fra il modo, realistico, di affrontare «il mondo come è» dell’uomo politico e quello del tecnico che si muove secondo gli schemi e i dettati dottrinari e astratti del «mondo come dovrebbe essere». L’uomo politico si preoccupa delle conseguenze delle proprie azioni a breve termine, ubbidendo ad una logica utilitaristica e alla propria esperienza, mentre il tecnico bada (soprattutto) a tener fede, se non all’etica, agli schematismi della teoria economica e agli imperativi moralistici alla cui realizzazione crede di essere stato preposto dalla collettività, se non proprio come «inviato da Dio» (salvo, poi, pensare crolli pure il mondo). Ora, che la spesa pubblica vada contenuta e ridotta, l’evasione fiscale e la corruzione debbano essere combattute è fin troppo ovvio per doverlo ripetere, così come sarebbe ingiusto attribuire la diffusione della corruzione ai governi «politici» passati; altrettanto ovvio è che, se un merito ha il governo «tecnico», è il rigore nei conti pubblici che cerca di imporre, ancorché col ricorso (sbagliato) ad una fiscalità più elevata d’Europa, invece che con la riduzione della spesa.

Ma, allora, sarebbe, assai più saggio chiedersi se il difetto non stia nel manico, cioè nell’Ordinamento giuridico e nel sistema politico usciti dalla pur meritoria Costituente del 1947, quando il mondo non era propriamente quello di adesso. Dove la politica, le sue eccessive risorse finanziarie e le sue ottuse logiche burocratiche si innestano nella produzione di ricchezza da parte della società civile, e ne condizionano l’autonomia, è inevitabile che, con la corruzione, la criminalità — che va dove sono più numerose e più facili le occasioni di mettere le mani sui soldi e le possibilità di eludere la legge— cresca e si diffonda. Dove, invece, sono il contratto e il mercato a presiedere ai rapporti civili, con le loro logiche «egoistiche»— le stesse che muovevano il macellaio, il birraio e il fornaio di Adam Smith —le probabilità di crescita della criminalità e di diffusione della corruzione sono minori semplicemente perché, ai fini del perseguimento del profitto, criminalità e corruzione non sono «convenienti», ma «costose». La crescita non la si produce per decreto, ma allargando i confini entro i quali si concretano l’autonomia e le capacità creative della società civile. Lo statalismo, qui, non è la soluzione, ma il problema. Si metta, dunque, mano alla riforma dello Stato— dal quale anche il liberalismo non può prescindere, anzi— partendo dalla revisione del suo Ordinamento giuridico, ripristinando lo Stato di diritto, oggi latente, non per aggiungere ai troppi divieti e regolamenti che riducono il cittadino a suddito altri divieti e altri regolamenti, bensì nel segno dell’individualismo metodologico, cioè del primato della centralità e dell’autonomia della Persona.

Sono anni che chiunque vada al governo promette riforme, che, poi, non fa, e/o che si risolvono in un’accresciuta invasività della sfera pubblica su quella privata. Con il forte astensionismo e il successo di Grillo alle ultime elezioni amministrative, inquietante avvisaglia di ciò che potrebbe accadere a quelle politiche del 2013, gli italiani hanno mostrato di non credere più alle promesse, ma di volere fatti, fatti, fatti all’insegna di un’espansione delle loro libertà.

Piero Ostellino29 maggio 2012


QUINDICI MINUTI CON UN PRETE

CULTURA E MISSIONE E IL CROCEVIA


DIECI LEZIONI DI DON AGOSTINO TISSELLI
Lezioni sul Catechismo della Chiesa Cattolica.
Sesta lezione
Parte IV sezione prima capitolo primo

Vedi nei link in alto a destra

DIES IRAE

LE ANGOSCE DEL CARDINALE MARTINI

di Sandro Magister
Tratto da Settimo cielo, il blog di Sandro Magister, il 27 maggio 2012
Il giorno di Pentecoste, sul “Corriere della Sera”, nella sua consueta pagina mensile di dialogo con i lettori, il cardinale Carlo Maria Martini risponde così a un lettore impressionato dal “Dies iræ” e dall’idea di un Dio che “castiga e condanna” nel giorno del giudizio finale
“Non credo che ci saranno grandi segni esterni. Questo mondo semplicemente ‘passa’. Perciò lascio in pace la mia immaginazione e mi preparo a ciò che il Signore vorrà mostrarci. In ogni caso vi sarà una proclamazione della gloria del Figlio Risorto, insieme con la certezza che a tutti sarà dato contemplare la bontà di Dio nel suo disegno sul mondo. Il testo cui lei fa riferimento [il 'Dies iræ' - ndr] è una visione distorta delle angosce del tempo ultimo, derivata da paure rinascenti dal cuore umano. Essa ha comandato anche l’arte di quei secoli”.
Rimosso il giudizio finale e fatta balenare l’idea di una beatitudine per tutti, c’è una distanza notevolissima tra queste parole del cardinale Martini sui “novissimi” e quelle, ad esempio, di Benedetto XVI nell’enciclica “Spe salvi“.
Ma anche a proposito del “Dies iræ” tra i due c’è un abisso. Per Martini “è una visione distorta” da relegare nel passato. Per Joseph Ratzinger è tutto l’opposto.
Basta rileggere come il papa commentò il 16 ottobre 2010 il “Requiem” di Verdi da lui ascoltato poco prima in concerto nell’aula delle udienze, citando una strofa proprio del “Dies iræ” come “parola della liturgia cattolica.
“‘Qui Mariam absolvisti, et latronem exaudisti, mihi quoque spem dedisti’, abbiamo ascoltato: ‘Tu che perdonasti Maria Maddalena ed esaudisti il buon ladrone, anche a me hai dato speranza’. Il grande affresco musicale di stasera rinnova in noi la certezza delle parole di sant’Agostino: ‘Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te’, il nostro cuore è inquieto, finché non riposa in te”.
E questa sarebbe l’angosciante “visione distorta”? In un canto tutto intessuto di riferimenti ai profeti dell’Antico Testamento e ai Vangeli, in particolare alla pagina di Matteo 25 sul giudizio finale?

L'ANITRA SELVATICA DI REPUBBLICA



di Don Gabriele Mangiarotti
Tratto dal sito Cultura Cattolica.it il 28 maggio 2012
«Così parlò Zarathustra» scrisse un giorno Nietzsche. Così parlò l’«anitra selvatica» si può dire a proposito dell’articolo del saccente Scalfari, su Repubblica di oggi, 27 maggio 2012.
Dà una strana impressione la lettura del suo Editoriale sul giornale che è sua creatura: l’impressione di un alunno impreparato che, per rimediare una sufficienza alla interrogazione, raffazzona una serie di notizie, collegandole a modo suo, sperando che la farraginosa confusione eviti al professore di indagare sulla veridicità e sulla correttezza delle informazioni.
Così la sua personalissima ricostruzione spacciata per storica: “Da Pacelli a Ratzinger” ci fa conoscere il volto del Camerlengo, «un volto assolutamente inespressivo; non era un uomo ma una carica, una funzione, una pausa del cerimoniale»; la sua profonda conoscenza degli intellettuali che contano ci fa conoscere il pensiero del «cattolico Alberto Melloni, uno degli storici della Chiesa più accreditati nella materia» di cui tratta; ci fa sapere che Berlusconi «fa ridere» di fronte a quel principe che era Pio XII, che «come tale si comportò e come tutti i principi indulse anche al populismo: riceveva ogni sorta di categorie della società civile: medici, avvocati, giornalisti cattolici, ciclisti e calciatori, casalinghe, poliziotti e militari, attori e operai, imprenditori e barbieri».
Potrei andare avanti a citare tutti i luoghi comuni di questa «anitra selvatica»: storico illuminato (?) e per l’occasione anche profeta (?), che riesce a descrivere il futuro della Chiesa dopo «il pontificato lezioso [che] andrà avanti finché potrà, poi non ci sarà il diluvio ma una pioggia da palude piena di rane, zanzare e qualche anitra selvatica».
In un editoriale, il sunto del sunto del sunto. Non lo accetterebbero neanche ad un’interrogazione di scuola media, ma tant’è. Per i fedelissimi di Repubblica “l’ha detto Scalfari” e dunque è vero. Per gli altri, impossibile confrontarsi con chi ha già chiaro tutto, con chi possiede il senso luminoso della storia ed anche la palla di vetro per (pre)vedere il futuro.
Noi - umili servitori della vigna del Signore – anziché perder tempo con le anatre che starnazzano, siamo abituati ad ascoltare quanto il Signore stesso («se volete lo Spirito Santo») ci fa capire della Chiesa cattolica, che – il Cielo ne sia lodato – è qualcosa di ben diverso da quanto il nostro Scalfari ha in testa. Caro Eugenio, «ci sono più cose in cielo e in terra, […], di quante ne sogni la tua filosofia». Abbiamo la grazia di incontrare qualcosa di più grande e vero, qualcosa che sa dare ragioni e speranza al cammino dell’uomo. E se vediamo quello che già Ratzinger chiamava la sporcizia nella Chiesa, sappiamo che l’esperienza quotidiana ci mostra altri e più veri segni della presenza rinnovatrice del Signore. E non sono i personaggi evocati da Scalfari.
Riporto quello che ha detto il futuro Papa nella Via Crucis del 2005: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano.
Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa: anche all’interno di essa, Adamo cade sempre di nuovo.Con la nostra caduta ti trasciniamo a terra, e Satana se la ride, perché spera che non riuscirai più a rialzarti da quella caduta; spera che tu, essendo stato trascinato nella caduta della tua Chiesa, rimarrai per terra sconfitto. Tu, però, ti rialzerai. Ti sei rialzato, sei risorto e puoi rialzare anche noi. Salva e santifica la tua Chiesa. Salva e santifica tutti noi».


venerdì 25 maggio 2012

QUINDICI MINUTI CON UN PRETE N.5

CULTURA E MISSIONE E IL CROCEVIA

Way of the Cross chicago 2009
DIECI LEZIONI DI DON AGOSTINO TISSELLI

SUL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

Quinta lezione
Parte IV sezione prima capitolo primo

La preghiera

vedi nel link in alto a destra
"Il Catechismo della Chiesa Cattolica

mercoledì 23 maggio 2012

LE CLINICHE DELLA FERTILITA'


Così si sfrutta la povertà delle donne per trasformarle in madri surrogate


Lo scenario è di quelli che qualcuno sogna anche qui. Cliniche della fertilità dove madri surrogate portano a termine gravidanze per conto terzi, con tutti che vissero felici e contenti: madre in affitto remunerata, bebé consegnato chiavi in mano, coppia committente (o singolo committente) che ottiene un figlio non ottenibile in altri modi. Poi succede, come è accaduto il 16 maggio in una clinica indiana specializzata in questo genere di servizi, che una madre-incubatrice muoia. Aveva trent’anni, si chiamava Premila Vaghela, aveva affittato l’utero per poter mantenere i propri due figli (le donne già madri sono la scelta “elettiva” per questo tipo di pratiche: sanno a che cosa vanno incontro) ed è morta all'ottavo mese di gravidanza a causa di “complicazioni inspiegabili”, che si sono manifestate con convulsioni e collasso proprio mentre la donna si sottoponeva a una visita di routine nella clinica della fertilità che l’aveva ingaggiata, il Women Hospital Pulse, con sede ad Ahmedabad, nello stato del Gujarat.

Il Times of India racconta che i medici della clinica sono riusciti a praticarle un cesareo di emergenza, prima di mandarla a morire in un altro ospedale. Premila Vaghela ha quindi “portato a termine il proprio lavoro”, commenta il quotidiano, e il bambino è stato consegnato alla donna americana che l’aveva commissionato. Il Women Hospital Pulse – una moderna struttura che opera in collegamento con un’analoga e importante clinica australiana della fertilità – garantisce prestazioni eccellenti e standard internazionali di assistenza. La morte della signora Vaghela è stata già catalogata come fatalità; nel contratto che aveva firmato, del resto, sollevava committenti e clinica da ogni responsabilità, se non per atti di negligenza difficilmente provabili. Tutti molto dispiaciuti ma che ci si può fare, incerti del mestiere di madre surrogata. L’infamia, infatti, è nel manico. E’ nell’idea che la povertà di una donna possa essere sfruttata in pratiche di moderna schiavitù, giustificata con l’altrui “diritto” a un figlio.

© - FOGLIO QUOTIDIANO



lunedì 21 maggio 2012

UN MOSTRO PER GIUSTIFICARCI


Non ho ancora aperto i quotidiani di stamane, ma ho sentito ieri qualche battuta alla tv. Non ricordo più chi sia o all’interno di quale trasmissione l’abbia detto, però, qualcuno ha affermato che il gesto criminale dell’attentato in cui Melissa ha perso la vita, sarebbe il gesto di un folle.

E’ molto facile fugare dalla coscienza l’ombra del dubbio sulla nostra responsabilità personale e collettiva, di cui ho parlato nei due post precedenti , con l’additare un mostro pazzo.

Non è giusto addossare ad un unico personaggio, sia pure disturbato mentalmente, un gesto che anni di odio insinuato, detto, urlato, istigato, non messo a tacere hanno coccolato e custodito con allegra irresponsabiltà che riteneva democratico esprimere l’indignazione, lo sdegno, la rabbia e non il senso di responsabilità anche di una sola parola detta a sproposito. E si vuole continuare così…

L’unica cosa dignitosa e giusta ed efficace che possiamo fare è almeno il silenzio e la preghiera per chi sa farlo, perché questo piano inclinato che ci sta portando alla totale autodistruzione si fermi e tutti possiamo ricominciare a respirare.

Le Istituzioni penseranno alle indagini e d è bene fidarsi di loro perché è la loro responsabilità. Ma noi non possiamo starcene a mani in mano senza almeno porci la domanda che mi pare fondamentale: quanto tempo vogliamo ancora lasciar passare senza prendere sul serio la nostra sia pur piccolissima responsabilità personale per la costruzione di un ambiente più giusto e pacifico intorno a noi?

venerdì 18 maggio 2012

COME UCCELLI NEL CIELO


Voi cattolici, mi obiettano gli amici “liberi pensatori”, siete chiusi nella gabbia del cattolicesimo. E io rispondo che è vero: il cattolico è prigioniero della sua Chiesa come l’uccello è prigioniero del cielo.

(Julien Green)


BASTA CON SAVIANO


di Giuliano Ferrara
Tratto da Il Foglio del 14 maggio 2012

Saviano al posto di Bocca. Uno che non ha mai detto nulla di interessante, che non ha un’idea in croce, che scrive male e banale, che parla come una macchinetta sputasentenze, che brancola nel buio di un generico civismo, che è stato assemblato come una zuppa di pesce retorico a partire da un romanzo di successo, si prende la rubrica di un tipo tosto che di cose da dire ne aveva fin troppe.

 Saviano a La7 per tre giorni con l’auricolare di Serra e la bonomia un po’ spenta di Fazio, un rimasuglio di tv dell’indignazione, una celebrazione di quella cazzata che è l’evento, il tutto destinato a sicuro successo di critica e di pubblico: il nulla intorno alle parole, ridotte barbaramente al nulla dell’ideologia, e tutt’intorno un uso cinico della condiscendenza verso il piccolo talento dell’ordinario. Saviano a New York, come un brand scassato alla ricerca della mafia già scoperta da Puzo, Coppola e Scorsese, una specie di Lapo in cerca di marketing sulle orme di Zuccotti Park, tranne che Lapo fa il suo mestieraccio. Saviano in ogni appello, dalla lotta al traffico di cocaina ai diritti dei gay a chissà cos’altro ancora. Saviano sul giornale stylish del mio amico Christian Rocca, perfino. Ma che palle.

L’ho ascoltato al Palasharp, un anno e mezzo fa, via web. Un disastro incolore. Uno fuori posto perfino in un luogo in cui si faceva mercimonio delle idee peggiori della società italiana. Non riusciva ad aderire, malgrado la buona volontà, nemmeno alla semplificazione moralista della politica nella sua forma estrema di faziosità e di odio teologico-politico. Saviano non sa fare niente e va su tutto, è di un grigiore penoso, e i madonnari che lo portano in processione dalla mattina alla sera gli hanno fatto un danno umano, civile, culturale e professionale quasi bestiale. Credo che le premesse fossero genuine, è l’esplosione che si è rivelata di un’atroce fumosità. Già non è dotato, ma poi mettergli in mano una specie di scettro da maghetto della popolarità e della significatività di sinistra o de sinistra, insignirlo di una strana laurea da rive gauche all’italiana, il caffè intellettuale dei mentecatti, chiedergli di pronunciarsi su tutto e su tutti come l’oracolo, di fungere da uomo-simbolo, lui che del simbolico ha appena la scorta, questo è veramente troppo.

I Moccia e i Fabio Volo hanno scritto anche loro libri di successo. E’ un guaio che ti può capitare, una brutta malattia come il premio Nobel e altre scemenze. Un giorno o l’altro qualcuno te le commina, se sei veramente sfortunato, e c’è chi sbava nell’attesa. Ma nessuno li ha trasformati in totem, non si prestavano, non erano all’altezza. Saviano invece è all’altezza di questa mondializzazione del banale, di questa spaventosa irriverenza verso l’allegria e l’eccentricità dell’intelletto come nutrimento della società e della vita, di questa orgia del progressismo finto sexy, il torello triste che combatte la sua corrida in compagnia di milioni di consumatori culturali e di utenti dell’indicibilmente e sinistramente comune, medio.

Siamo il paese di Wilcock, di Flaiano, di Cesaretto, di Manganelli e a parte lo spirito d’avanguardia e di letizia della scrittura, abbondano grandi maestri, filologi, scrittori anche civili che qualcosa da dire ce l’hanno, in trattoria e sui giornali e in tv, e siamo stati trasformati nel paese dei balocchi dei festival e delle seriali conferenze culturali dedicate al libro, al bestseller che ti cambia la vita come una nuova religione e ti immette nel mainstream più compiacente e belinaro.

Ma via. Qualcuno deve pur dirlo. Facciamo un comitato, qualcosa di sapido e di cattivo, qualcosa di rivoltoso e di ribaldo. Basta con Saviano.

giovedì 17 maggio 2012

VERSO L'IRRILEVANZA DEI CATTOLICI


L etica dopo il bunga bunga

16 Maggio 2012
DI ASSUNTINA MORRESI


Oggi c’è stato un convegno, la “Giornata Internazionale della famiglia”. Il Forum delle Famiglie l’ha organizzata fin dal 2002, e quest’anno ha coinvolto alcune istituzioni: Camera dei Deputati, Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministro per la Cooperazione internazionale e l’integrazione (che ha anche le deleghe alla famiglia). Qua il programma.



E nel pomeriggio arriva il ministro Fornero – intervento programmato – e subito dopo l’intervento del Presidente del Forum, serenamente spiega che:



"La famiglia e' in crisi. Una crisi innanzitutto di identità: la famiglia tradizionale rischia di diventare un'eccezione, non più la regola. Oggi le famiglie di fanno e si disfano, le coppie di fatto chiedono di essere considerate famiglie, ci sono coabitazioni di persone dello stesso sesso che chiedono la stessa cosa. Dobbiamo sforzarci di distinguere la parte riconducibile a un sistema di valori tradizionali e una visione aperta in cui tutti chiedono diritti. Io sono anche ministro per le pari opportunita, non mi pronuncio a favore di una cosa o dell'altra, ma esiste un problema di identità familiare e non possiamo far finta di niente. Abbiamo il dovere di riflettere".



Insomma: la Fornero con somma tranquillità va ad un evento istituzionale promosso dal Forum delle Famiglie e gli dice in faccia che il Forum è superato dagli eventi, è sostanzialmente vecchio, deve avere una visione aperta e che lei, insomma, da ministro delle pari opportunità deve per esempio porsi il problema delle coppie omosessuali.



E adesso affondo il coltello nella piaga: dove sono quelli che col sopracciglio alzato avevano obiettato a che Berlusconi presentasse la Conferenza Nazionale delle Famiglie (che il suo governo organizzava e finanziava)?



Quelli scandalizzati per i comportamenti privati di Berlusconi, che non si sentivano rappresentati da un cotale Presidente del Consiglio, adesso che fanno, con gli irreprensibili comportamenti pubblici della professoressa Fornero? Si sentono rappresentati, adesso?



La verità, paradossale solo in apparenza, è che insieme al re del bunga bunga e al suo governo sono caduti tutti gli argini in politica sui temi eticamente sensibili. Piaccia o meno – probabilmente a certi non piace affatto - le cose stanno così.



Già lo stiamo vedendo chiaramente: oggi il Ministro Profumo ha invitato i presidi a celebrare nelle scuole la giornata contro l’omofobia; sulla Fornero abbiamo già detto; non si riesce a discutere al Senato la legge sul fine vita; le linee guida sulla legge 40, pronte da mesi, non sono ancora state firmate dal Ministro Balduzzi, che evidentemente sta aspettando speranzoso la sentenza sull’eterologa; Pigi Battista sul Corriere scrive che, insomma, il matrimonio fra omosessuali non è mica una minaccia, il che significa che questa è la nuova parola d’ordine del “salotto buono” italiano; i radicali rilanciano il testamento biologico via web, e questo solo per dire le principali degli ultimi due giorni.



E non venitemi a dire, per favore, che in tempi di crisi economica dei temi eticamente sensibili non gliene frega niente a nessuno. Non è vero, e non è neanche vero che si usano per distrarre l’opinione pubblica: se così fosse, il governo Monti spingerebbe per portare la legge sul fine vita in parlamento, affronterebbe le leggi su coppie di fatto, e così via, per non far riempire le pagine dei giornali di tasse e suicidi.

Ma non lo fa, anzi: evita come la peste di discutere di questi temi, che scatenano ogni volta un putiferio e metterebbero sicuramente in difficoltà il suo governo.



Il fatto è che questi SONO temi fondamentali, che ognuno sente inevitabilmente come dirimenti, non eludibili. La vita, la morte, l’amore, i figli: per quale strano motivo non dovrebbero interessare, in tempo di crisi economica? Forse non si nasce più, non si muore più, non si desidera più avere figli? E d’altra parte, c’è una pressione fortissima del mondo ormai senza fede, per abbattere l’antropologia cristiana, per annichilire un orientamento cristiano diffuso anche fra i non praticanti, e sostituirlo con un triste individualismo nichilista assoluto, ed indifferente a qualsiasi credo religioso.



Per quale motivo un governo tecnico dovrebbe rimanere estraneo a questi temi? Non è la politica a decidere di metterli al centro. Sono loro a mettercisi: eutanasia, matrimoni gay, fecondazione assistita, arrivano da soli, nessuno li chiama sulla scena del dibattito pubblico.

E mentre tutto sembra venir giù, nel nuovo assetto politico i cattolici marciano serenamente verso l’irrilevanza.





COMUNICATO STAMPA DI EUGENIA ROCCELLA

Mi dispiacerebbe pensare che il Ministro Fornero che non ha mai cercato facili consensi sulle riforme per il lavoro, ne cerchi invece sul fronte della famiglia e del riconoscimento pubblico delle unioni di fatto.

Se il Ministro leggesse i dati, scoprirebbe che la situazione italiana è profondamente diversa da quella di gran parte del resto d’Europa: la famiglia tradizionale è ancora la regola, i figli nascono all’interno del matrimonio avendo quasi sempre un padre e una madre, resiste una rete parentale di sostegno e di affetti e tutto questo ha costituito, come il Ministro certamente sa, l’ammortizzatore sociale fondamentale che ha permesso a questo paese di resistere nella bufera della crisi economica.

Altrove spesso ci sono ormai altissime percentuali di madri single e questo produce povertà femminile e infantile e volatilità del ruolo paterno, i divorzi sono in qualche caso addirittura più dei matrimoni e le relazioni familiari sono instabili e poco durevoli.

Non chiedo a Elsa Fornero di condividere delle idee o dei principi, le chiedo però di tenere nel dovuto conto il dettato costituzionale che riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e le chiedo, come Ministro del Welfare, di considerare le ricadute sul piano dello stato sociale di provvedimenti che rendono la famiglia più fragile e precaria, smagliando le reti di sostegno e di solidarietà così tipiche del nostro paese.

SANT'OBAMA PROTETTORE DEI GAY


L’unione gay è una scelta di vita privata da rispettare e magari da regolamenta­re. Il matrimonio, invece, è la fonte della famiglia che è l’unica struttura naturale e culturale su cui si fonda, si rigenera e si perpetua una società e ogni civiltà

di Marcello Veneziani - 16 maggio 2012, 17:10

Sulla copertina di Newsweek l’hanno fatto con l’aureola, santo patrono delle coppie gay.

Dico di Obama che sostiene il matrimonio omosessuale.
E penso ai suoi devoti, anche nostrani; penso pure a Battisti che sul Corsera ha sostenuto le nozze gay.
Togliamo subito di mezzo ogni demonizzazione; ci sono omo migliori degli etero e altri peggiori, la personalità non si riduce al sesso. Bando a ogni fobia. L’unione gay è una scelta di vita privata da rispettare e magari da regolamentare. Il matrimonio, invece, è la fonte della famiglia che è l’unica struttura naturale e culturale su cui si fonda, si rigenera e si perpetua una società e ogni civiltà. È dunque un bene pubblico da riconoscere, da tutelare e da distinguere da ogni altro tipo di unione.
Se la famiglia è un bene,l’unione gay è un fatto privato, che può avere valore soggettivo per quelle coppie; mentre la famiglia è un bene che ha valore etico, civile e religioso per la comunità, la sua storia e il suo avvenire. Quella distinzione va salvaguardata, per il bene della famiglia, non per il male dei gay.
A favore delle nozze gay c’è Obama e il Potente Spirito del Tempo, mentre alle spalle di chi distingue il matrimonio dall’unione gay c’è, sola e inerme, la civiltà come finora l’abbiamo conosciuta e la nostra tradizione in uso da qualche millennio, anche precristiana. Se la famiglia oggi è molto malata, non è una buona ragione per seppellirla nella fossa comune delle unioni. Semmai una ragione in più per tutelarla e per volerle bene, come a una madre o a un figlio.

mercoledì 16 maggio 2012

QUINDICI MINUTI CON UN PRETE N.4

CULTURA E MISSIONE E IL CROCEVIA

Chicago Way of the Cross 2010

DIECI LEZIONI DI DON AGOSTINO TISSELLI
SUL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA


Quarta lezione
 
La Preghiera – introduzione parte IV

Vedi nel link in alto a destra

i precedenti post



http://crocevia-adhoc.blogspot.it/p/terza-lezione.html

UNA DOMANDA


UNA DOMANDA A REPUBBLICA

Perché esistete? A che servite, oltre che per sostenere il triste nichilismo, dopo aver visto naufragare la speranza di un mondo migliore, a partire dalla vostra disastrosa ideologia?


Antonio Simone

domenica 13 maggio 2012

DANIELOU LA VERITA' USURPATA


Al numero 56 di rue Dulong, non c’è il citofono per suonare agli appartamenti. Allora, per entrare, aspetto che arrivi qualcuno. Davanti alla casa, c’è una chiesa luterana. Un po’ più avanti, massaggi tailandesi; a fianco una psicoterapeuta; sull’altro lato, una misteriosa società finanziaria. Una famiglia arriva, apre il portone, e mi respinge bruscamente quando chiedo di poter vedere l’ingresso. Dopo qualche tempo arriva una giovane donna, molto truccata. Ha paura di me, ma infine mi fa entrare: «Però non ti ho fatto entrare io», dice. Salgo quattro piani, 72 scalini ricoperti da un tappeto lurido, un buio e uno squallore che fanno impressione. Al quarto piano, sono davanti alla porta che fu della call-girl Mimì Santoni. Non busso. Qui, nel 1974, morì il cardinale Jean Daniélou, stroncato da un infarto. Daniélou è un protagonista dimenticato della stagione teologica del Vaticano II. Era uno dei principali motori della "nouvelle théologie", fra i fondatori di Sources Chrétiennes, redattore di riviste, autore di circa sessanta libri, e fra le voci più autorevoli al Concilio. Ma in seguito alla sua morte, raccontata in modo scandalistico sulla stampa parigina, su di lui è calato il silenzio. Oggi i suoi libri sono quasi tutti fuori commercio.

Di lui si ricorda solo la strana circostanza del decesso. «Camminava sempre in fretta; la testa arrivava prima, poi il resto!». Lo racconta suor Grazia Zangrando, che trovo a Parigi nella casa delle "Figlie del Cuore di Maria". Negli ultimi tempi il cardinale Daniélou viveva da loro. Aveva traslocato a casa delle suore in seguito a forti contrasti con i gesuiti con cui abitava da decenni. Aveva osato molto in un’intervista a Radio Vaticana il 23 ottobre 1972: «Penso che attualmente c’è una crisi molto grave della vita religiosa e che non bisogna parlare di rinnovamento, ma piuttosto di decadenza. […] La causa essenziale di questa crisi è una falsa interpretazione del Vaticano II». Suonava come un’accusa ai suoi superiori diretti: all’epoca, il segretario dell’Unione dei Superiori Generali degli istituti religiosi era il generale della Compagnia di Gesù. Suor Grazia racconta: «Appena è venuto da noi, ha dato la sua disponibilità per celebrare la nostra messa mattutina, alle 7. Ma dopo l’Eucaristia il cardinale si sedeva per venti minuti di preghiera in silenzio, prima di dare la benedizione, sconvolgendo così tutti gli orari della casa!». Veramente un sacerdote così aveva una doppia vita? Suor Grazia allarga le braccia: «Non ho mai creduto a quelle storie».

Nel 1972 era giovane novizia, ed era rimasta colpita dalla semplicità di padre Daniélou, che come unico segno esteriore del suo essere cardinale portava le calze rosse, e che nonostante i suoi molti impegni faceva di tutto per pranzare nel convento assieme a un vecchio sacerdote, padre Girard, che altrimenti sarebbe rimasto solo. Il 19 maggio 1974, Daniélou era andato in Bretagna a predicare un ritiro (fra le altre cose, aveva parlato della bellezza del celibato sacerdotale). Il giorno dopo aveva celebrato la messa, aveva lavorato a Sources Chrétiennes e, nel pomeriggio, aveva preso l’autobus 68 per Porte de Clichy, all’altro lato della città ed era giunto alla casa della prostituta Mimì Santoni. Questo il racconto di Mimì riportato da Emmanuelle de Boysson: «Veniva per portarmi dei soldi per aiutarmi a pagare l’avvocato di mio marito, che era stato imprigionato. Era bianco come un lenzuolo. Mi ha guardato e mi ha domandato di aprire la finestra. sottolineando: "Che caldo che fa qui!"». L’attacco cardiaco preannunciato negli ultimi due giorni, con mancamenti notati da molti testimoni, è arrivato. Concludeva la Santoni: «È caduto in ginocchio. La sua testa si è schiantata sul pavimento. Un ultimo respiro e poi niente. Molto tempo dopo, mi sono detta: che bella morte per un cardinale cadere in ginocchio!».

Le circostanze della morte furono al centro di una feroce campagna di stampa. Ma Daniélou meritava veramente un simile trattamento? Nel suo primo libro, Il segno del tempio, cita una bella frase di Claudel, «Soltanto un’anima purificata sentirà il profumo della rosa». Poi commenta: «Occorre che ritrovi la purezza del mio sguardo. Allora le creature ritorneranno a essere messaggi luminosi». Ma chi era il cardinale Daniélou? Ovunque nella sua autobiografia, come nel ricordo di chi lo conosceva bene, si pone come un uomo singolarmente libero, fuori dagli schemi. Si situa fuori dall’ambito mondano che suo padre, più volte ministro, voleva per lui. E si pone fuori dagli stereotipi: «Sono profondamente un uomo di Chiesa, sono molto poco clericale». Nei ritiri spirituali poneva apertamente le domande scottanti della fede: «Che cosa vi dà il diritto di credere in questa cosa improbabile che Dio sia intervenuto nella storia dell’uomo? Cioè, che cosa giustifica il mio diritto di aderire alla verità della storia santa? […] Ho il diritto di fidarmi assolutamente della testimonianza della Scrittura?». Non aveva paura di guardare in faccia le difficoltà, non si nascondeva dietro pie frasi. Allo stesso tempo, la sua grande certezza non aveva il sapore dell’intransigenza. In un dibattito pubblico con André Chouraqui, traduttore di una versione della Bibbia in francese che ha suscitato molto interesse, ebbe a dire «In quanto cristiano, le devo annunciare Gesù Cristo e spero una cosa soltanto, che lei lo riconosca, il che non mi impedisce di rispettare profondamente i valori del giudaismo». Singolare e solare schiettezza. Daniélou, l’uomo del dialogo, era anche l’uomo della fermezza e del vigore del pensiero. Non aveva paura di usare parole forti quando era in gioco un punto irrinunciabile. Ha dimostrato in numerosi testi e conferenze di essere un profondo conoscitore ed estimatore di tante religioni: non solo l’ebraismo, ma anche l’islam, l’induismo, il buddismo, l’animismo africano... Era seriamente impegnato a far emergere dall’esperienza religiosa dell’umanità quegli elementi comuni su cui far leva per meglio vivere insieme, e anche per mostrare la somma convenienza di Cristo. Diceva che «il cristianesimo non è una religione tra altre religioni. È fondamentalmente un messaggio di Dio indirizzato agli uomini di ogni religione».

L’unica posizione religiosa con cui aveva poca pazienza era l’ateismo. Lo considerava «profondamente disumano». «Dinnanzi all’ateismo, davanti a una totale insensibilità ai valori religiosi, provo un senso di imbarazzo quasi fisico e non capisco perché i cristiani non rigettino fermamente l’ateismo, per quanto siano ammirabili alcuni atei». Dedicava una parte significativa del suo tempo a parlare agli studenti. Nei primi anni di messa, aveva servito come cappellano dell’École Normale Supérieure de Sèvres, e aveva aiutato il cappellano del gruppo cattolico di Lettere presso la Sorbonne. Poi con madre Marie de l’Assomption dà vita al movimento ecclesiale il "Circolo san Giovanni Battista". Si radunavano gruppi di studentesse per la messa domenicale seguita da una conferenza sulla fede, le matinées spirituelles. Molti suoi libri sono nati da questa predicazione. All’inizio di uno di essi, Miti pagani e mistero cristiano, scrive nella prefazione: «In un tempo in cui l’esistenza di Dio è contestata da tanti, è più che mai urgente parlare, e con quel tono diretto che può prestarsi alle critiche dei saggi, ma che può giungere ai cuori. Ed è questo che mi interessa». La stessa testimonianza viene resa da padre Xavier Tilliette, nella prefazione ai Carnets del cardinal Daniélou. Scrive: «Deplorava la speculazione teologica, col pomposo titolo di ricerca, e la pastorale sacramentale utopica, senza radici, senza la vera esperienza delle persone, delle anime, dei loro bisogni e della loro fame. Respingeva con tutta la forza una teologia di laboratorio». Daniélou fu innanzitutto un prete, apostolo di Cristo, infiammato dal desiderio di insegnare agli uomini e alle donne la bellezza della vita cristiana.



Jonah Lynch - Vicerettore Fraternità San Carlo Borromeo



A metà degli anni 60 ho fatto alcuni incontri decisivi per mia vita: fra questi la letture del “Saggio sul Mistero della Storia” di Padre Danielou. Da allora Lo porto sempre nel cuore.
E ringrazio Jonah Lynch per questa memoria

venerdì 11 maggio 2012

UN EROE TRAGICO


BOLOGNA - Il destino ha reso Maurizio Cevenini (un uomo perbene, un politico popolare) un eroe tragico. E se questo è successo è perché noi tutti che lo abbiamo conosciuto o che restiamo sgomenti per questo suicidio, diventiamo più coscienti non tanto di cosa è la morte, ma di cosa è la vita. Il silenzio dinanzi a fatti del genere non deve essere un restare vuoti di senso e di domande. Sarebbe troppo comodo non costringerci a un lavoro su noi stessi.
da sin: Monari, Foschini, Menarini, Cevenini

E ai poeti tocca di parlare, tocca il compito di guardare dentro al silenzio di tanti e al voltar la faccia di tanti. Perché dire: «Eh, la depressione» è solo un modo per chiudere il problema. E la depressione è effetto di altre cose, non una causa. E dunque il destino ha fatto del Cev un personaggio tragico, come un personaggio di Omero. Proprio lui che era affabile, disponibile, alla mano. Uno apparentemente poco «eroico».

Ora nel suo nome ci appare una questione gigantesca. Voltar la faccia significa rifiutare di paragonarsi con la grandezza, scegliere di non stare all’altezza del fenomeno uomo. E a furia di rifiutare il paragone con la grandezza si diventa capaci solo di cose piccole, e di piccinerie. La vicenda recente di Maurizio Cevenini è stata come di eroe omerico: il fato o il caso, o che cosa, l’ha bloccato sulla soglia di una grande impresa. Sarebbe stato sindaco. Ma qualcosa, cosa, qualcuno, chi(?) lo ha bloccato a un passo. Poi una storia faticosa, anche di incomprensioni con i compagni, e altre cose custodite nell’unico luogo adeguato: il suo cuore e quello di chi lo ha amato da vicino. E infine il volo come per uscire da un incubo. E il problema è tremendamente questo: cos’ha guidato il destino di quest’uomo e come egli ha guardato e litigato, discusso o abbracciato il suo destino? Problema del Cev, di tutti.

Proprio lui, il politico interessato ai problemi della gente, ci fa interessare al problema dei problemi: che nome diamo al nostro destino? Il mondo è da dividere in fortunati e sfortunati? In depressi e allegri? Ci sono persone colpite da sventure più grandi di quelle che hanno colpito il nostro Cev. E non se ne volano via. Ci sono persone che si disperano per molto meno di quello che aveva colpito lui. In questo momento non bello della nostra società, da questo gesto ci arriva un invito estremo.

Non voltate la faccia. Ognuno al suo lavoro, come diceva Eliot. Da tale lavoro nasce l’energia della costruzione, della ripresa anche nella crisi più dura. Da questo lavoro dipende se lasciamo dietro di noi una rabbia contro il destino, una sgomenta paralisi o una umile familiarità, che si fa grido e preghiera. Un uomo duemila anni fa ha detto del destino: chiamatelo Padre Nostro. Ha sfidato la nostra intelligenza e il nostro cuore, mostrando i segni di quella paternità e patendo lo scandalo apparentemente insensato del dolore in croce. Li vediamo quei segni? Li aveva visti e riconosciuti il Cev? La croce è muta tra noi? Chi dice Padre Nostro sa che cosa rivoluzionaria, enorme, dolcissima e necessaria sta dicendo?

Davide Rondoni10 maggio 2012 dal Corriere Bologna