mercoledì 25 ottobre 2017

SIMONE WEIL: LA PRIMA RADICE


 Non c’entrano solo gli immigrati o il terrorismo, ma la paura di perdere le radici

L’Austria e la Repubblica Ceca, il Giappone e l’Argentina: tre recentissime vittorie elettorali del centro destra. Quelle europee si vorrebbe spiegare con la parola «paura»: gli elettori volterebbero
Mauricio Macri
le spalle alla ancora prevalente, anche se decadente, cultura di sinistra perché terrorizzati dalla invasione dei migranti e dal terrorismo.

Da ciò nasce il gioco della minimizzazione di questi due flagelli del nuovo millennio:
«Non dovete avere paura» comandano i padrini del buonismo irresponsabile; «non abbiamo paura», rispondono i sostenitori del multiculturalismo disinvolto, possiamo prenderli tutti, tanto le nostre libertà democratiche sono più forti».

Uno schema di comodo, un alibi disperato, un ragionamento da confraternita dei semplici. Per fortuna i popoli non sono così sciocchi come credono le «Menti», i mali della
invasione li conoscono direttamente.
Il loro buon senso li induce ad avere una sacrosanta paura, anche di fronte alle tecniche dei politici «progressisti» e dei mass-media, che sono quasi tutti amici del giaguaro.
Ma la paura è solo un elemento del malessere attuale dei popoli occidentali. Essa è
come la punta di un grande iceberg, che ha gelato le cose più autentiche della vita: la famiglia, i gruppi sociali, la patria, il lavoro, la scuola, la religione, l’ambiente. Se vogliamo capire bene questo dramma epocale dobbiamo rivolgerci a una donna: Simone Weil.

Che a Londra lo diagnosticò nella sua più ampia e, purtroppo, ultima opera del 1943, lo stesso anno della morte a 34 anni: «Sradicamento».
Rifiutato ben presto il giovanile marxismo, definito «oppio dei popoli», l’israelita
Simone enunciò una antropologia, che si richiamava alle fonti più profonde delle religioni: le Upanishad, Omero, la Bibbia, il Vangelo, il Corano. Le dèracinement fu pubblicata postuma da Albert Camus e tradotta in italiano nel 1954 dalle Edizioni di Comunità, col titolo La prima radice (Olivetti; ora Ediz. Se, 2013).

Simone conosce il concetto marxiano di «alienazione economica», ma lo considera
una semplificazione politica del più vero concetto, insegnato dalle religioni, di «radicamento». Anche se la rivoluzione comunista la eliminasse, economica, resterebbe
immutata quella «mancanza di radici» che è costitutiva della situazione umana. Merita di
essere ricordato un brano di insondabile profondità, che può aiutarci a capire la situazione
attuale:
«Il radicamento è forse l’esigenza più importante e più misconosciuta dell’anima
umana. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo,
dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente.
Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente” (ed. 1954, p. 49).

Che l’Occidente abbia largamente perso queste radici (di cui nell’Unione
Europea si trovano ben poche tracce) è stato mostrato da non pochi studiosi.
Una delle caratteristiche della nostra crisi, che in primo luogo non è economica,
ma religiosa e morale, è che tutte le matrici della formazione della persona sono state distrutte senza essere ancora sostituite.
Senza dubbio andavano cambiate, ogni epoca deve aggiornarsi e riformarsi. Purtroppo
la nostra ha perduto il vecchio senza essere sinora stato capace di inventare il nuovo.

La famiglia, un tempo paternale e estesa, andava adattata al mutato ambiente, mentre è stata sconvolta e privata di quasi tutte le sue funzioni: procreazione, educazione, assistenza. Mentre forme diverse di convivenza, impropriamente chiamate famiglie, le tolgono la preminenza. I genitori si sono fatti incerti e indefiniti. La religione è «buonista», non vi si cerca più una radice ma un conforto emotivo domenicale, soprattutto nei grandi raduni massmediatici. Sempre affollati mentre le chiese sono sempre più vuote.

Le razze si sono eutanasizzate e le etnie sono divenute confuse e mutanti. La scuola
ha largamente perso la sua duplice funzione di istruzione ed educazione. Il lavoro e la professione si sono fatti provvisori e mutevoli. L’ambiente naturale non è più un luogo di conforto, ma un malato da assistere.
La politica ha smarrito tanto le idee quanto le ideologie, per farsi liquida e mercantile.
Le vecchie radici sono state in gran parte sostituite con poteri intossicati e prepotenti: una scienza invadente, una tecnologia amorale, mezzi di comunicazione superficiali e manipolanti, una cultura di massa degradante e analfabeta.
Il tutto venduto come ricchezza «pluralistica» e «dialogica», mentre la definizione
più giusta l’aveva data Majakovskij nel suo Inno a Satana: «Tutti i centri sono in frantumi, non esiste più il centro«.

Non tutto né tutti entrano in questa fotografia. Ma di questa mancanza di un centro
o di una radice i popoli occidentali si stanno rendendo conto.
E ne hanno paura. L’invasione migratoria e il terrorismo aggiungono una nuova paura
alle vecchie, essa nasce dalla consapevolezza che la società multietnica mette in crisi anche
quelle poche certezze che ancor erano sopravvissute.
Ne deriva un ripristino di nostalgie patriottiche e tradizionaliste, con modalità assai più nostalgiche che nazionaliste. Se è «populismo» è solo per il desiderio di ripristinare, contro l’individualismo e il narcisismo, un popolo, fornito di una identità che lo apre al dialogo e lo preserva dalla dissoluzione.
In modo da poter colmare quella mancanza di princìpi permanenti e di valori non negoziabili, che il grande poeta della finis Austriae aveva espresso col noto verso: «E come appare malato tutto ciò che diviene!». (George Trakl)

Da Italiaoggi

Gianfranco Morra

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