venerdì 20 aprile 2018

GENTE DI NESSUNO?


ALFIE EVANS E TUTTI NOI
LEONARDO LUGARESI
In uno dei passi più tenebrosi – e perciò più luminosi all'intelligenza cristiana della realtà – dei Promessi sposi, nel capitolo XI, don Rodrigo, mentre si accinge a portare alle estreme conseguenze la gran porcata che sta facendo a Lucia e a Renzo, affronta tra sé e sé la paura che il suo comportamento gli ispira e si conforta con queste parole: «Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno».
Papa Francesco col padre di Alfie Evans
Così pensa il potere mondano, e così parla quando non finge: quando non ciancia più di “dignità umana”, “valori”, “diritti inalienabili” e “democrazia”, e bada solo alla forza. Chi non ha «neanche un padrone» non è niente, è «gente di nessuno». Da soli, siamo tutti “gente di nessuno”, agli occhi dei padroni del mondo. Come Alfie Evans, che è un piccolo bambino malato, e i suoi genitori che sono poco più che ragazzi, siamo anche noi che siamo adulti, e ci crediamo “scafati”; noi che contiamo puerilmente sulle risibili sicurezze della nostra posizione nella società, dei nostri soldi, delle nostre relazioni. Di fronte al Potere, siamo gente di nessuno.
Ieri è stata una giornata importante, per la chiesa e per il mondo, perché il Papa ha infine ricevuto il babbo di Alfie e ha pronunciato pubblicamente queste parole: «Attiro l’attenzione di nuovo su Vincent Lambert e sul piccolo Alfie Evans, e vorrei ribadire e fortemente confermare che l’unico padrone della vita, dall’inizio alla fine naturale, è Dio!». Sono esattamente le parole che era necessario dire, e che spettava primariamente a lui dire.
Ha chiamato Dio padrone. Ora, “padrone” è una parola aborrita dal linguaggio contemporaneo, fuori e dentro la chiesa. “Né Dio né padrone” è stato lo slogan della rivolta moderna, la cifra della componente anarchica presente un po' in tutte le utopie con cui gli uomini si sono illusi negli ultimi duecento anni. Una parola cruda, che non è educato usare nella conversazione civile e che è quasi sparita anche dal lessico politico. Eppure, se guardiamo alla sostanza delle cose, possiamo forse dire che di padroni, al mondo, non ce ne sono più?
Il papa ieri ha usato quella parola, per ricordare una gran verità che i cristiani hanno da annunciare al mondo: che gli uomini un padrone ce l'hanno, ed è il Signore, Dio onnipotente, eterno e infinitamente buono. Hanno un padrone e proprio per questo non ne hanno altri. So che oggi nella chiesa si preferisce usare un altro linguaggio: si prefersice dire che Dio è padre (anzi è anche madre), è un amico che si è fatto come noi, uno di noi, per amarci e per servirci, e quando è la festa di Cristo re, tutte le omelie di tutte le messe si affrettano a spiegare che sì, Gesù è re, ma non proprio un re, non come i re della terra, e il suo modo di regnare è squello di servire e offrire la sua vita per noi ... Tutto giusto e tutto vero.
Però una chiesa che vuol essere missionaria (o “in uscita”, come oggi si usa dire) deve imparare anche a parlare il linguaggio del mondo, se vuole farsi capire. E non solo quello di superficie, ma anche quello profondo. A gente come noi, che, in fondo in fondo, la pensa come don Rodrigo, bisogna saper dire chiaro e forte quello che il papa ha detto ieri: che l'unico padrone della vita è Dio. Quel Dio a cui l'uomo contemporaneo è sempre pronto a chiedere ragione di tutto quello che nella vita non gli va bene.
C'è un particolare, nella parabola dei talenti, che mi ha sempre colpito: quando il servo infingardo vuole giustificarsi per non aver trafficato il talento che gli era stato affidato dal padrone quasi lo rimprovera di essere «un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso». Il padrone, che nella parabola simboleggia Dio, non lo corregge e non nega affatto di essere come ha detto il servo, ma rivendica la sua sovrana libertà di agire come vuole: «Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse» (Mt 25,26-27).
leonardolugaresi | 19 aprile 201

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